Dott. Luca Procopio
CTR LAZIO n. 1402, depositata 4.6.2020
L’avviso di accertamento derivante dall’applicazione degli “studi di settore” deve tener conto delle concrete circostanze economiche e fattuali in cui è stata svolta l’attività di impresa e la sua fondatezza va esaminata anche alla luce dello “studio” più evoluto.
I Giudici di seconde cure, nel respingere l’appello dell’Agenzia delle entrate, confermano che le risultanze dello specifico “studio di settore” applicato non vanno sic et simpliciter tradotti in una maggiore pretesa impositiva, dovendo le medesime essere contestualizzate rispetto alla specifica realtà dell’attività economica esercitata dal contribuente nel periodo di imposta oggetto del controllo o, comunque, adeguate alla realtà reddituale del singolo contribuente e confrontate con quella della versione più evoluta del medesimo “studio”
Nello specifico, la CTR Lazio rileva l’infondatezza dell’avviso di accertamento standardizzato alla luce dei seguenti elementi ed argomentazioni addotte dalla società di persone contribuente e da uno dei soci:
- sin dal primo grado del giudizio, lo scostamento tra i ricavi societari dichiarati e quelli presunti dallo “studio di settore” applicato veniva giustificato evidenziando «una serie di circostanze concernenti la situazione concreta riferibile alla società accertata, quali ad esempio l’ubicazione della sede dell’esercizio, il reale apporto di forza lavoro dei due soci»;
- l’Ufficio impositore aveva ritenuto “congrui” i redditi dichiarati nei periodi di imposta precedenti a quello oggetto di accertamento (anno 2008), e, in particolare, in un quello immediatamente precedente (anno 2007);
- «eventi contingenti […] hanno direttamente inciso sull’attività di impresa nell’anno oggetto di accertamento e, conseguentemente, sui suoi risultati economici, ed in particolare la situazione di grave crisi finanziaria che aveva colpito il settore proprio a partire dall’anno 2008;
- l’evoluzione dello “studio di settore” applicato, includendo i “correttivi anticrisi”, smentiva la concreta affidabilità delle risultanze emerse dalla precedente versione applicata dall’Ufficio impositore, il quale, peraltro, in violazione della prassi amministrativa, aveva rifiutato, durante il contraddittorio endoprocedimentale, la richiesta di rielaborazione avanzata dal contribuente proprio in considerazione dei correttivi introdotti nell’evoluzione dello “studio”.
Testo della Sentenza
FATTO
Con distinti ricorsi la Società xxxxxxxxxxxx snc ed il
socio xxxxxxxxxxxxxxx impugnavano avanti la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, rispettivamente, l’avviso di accertamento n. xxxxxxxxxxxxxx relativo ad IRAP ed IVA 2008 e l’avviso n. xxxxxxxxx, relativo ad IRPEF 2008, e contestuale irrogazione di sanzioni, notificati loro nel dicembre 2013, con cui l’Agenzia delle Entrate di Roma, premesso di aver proceduto al controllo della posizione fiscale della società relativamente all’anno 2008, effettuata mediante ricorso agli studi di settore, rilevava maggiori ricavi per euro xxxxxxx,00, un maggior reddito di impresa pari ad euro xxxxx00 ed in capo al socio un reddito da partecipazione, nella misura del 50%, pari ad euro xxxxx,00 e relative sanzioni.
Con sentenza n. 6900/31/17, depositata in data 17.03.2017, la C.T.P. adita accoglieva i ricorsi riuniti sulla base di un motivo formale, ritenuto assorbente, costituito dalla mancata allegazione della delega al funzionario Capo team che aveva sottoscritto l’avviso di accertamento impugnato.
Avverso tale sentenza ha proposto appello l’Ufficio, con atto notificato tramite posta elettronica certificata in data 26.09.2017, depositando gli ordini di servizio nn. 10/2013 e 27/2013, dai quali deriverebbe la legittimità della sottoscrizione degli avvisi di accertamento in oggetto e sostanzialmente ribadendo quanto già esposto in primo grado in ordine al merito della questione: i ricavi dichiarati risultano inferiori rispetto agli studi di settore, e tale incongruenza, reiterata anche negli anni successivi a quello considerato, può considerarsi indice sintomatico di una condotta apparentemente antieconomica che “è assai probabile che derivi dal sottodimensionamento dei ricavi medesimi”, e che legittima l’effettuazione dell’accertamento sulla base di studi di settore “senza che l’Amministrazione finanziaria debba fornire ulteriori dimostrazioni a sostegno della pretesa tributaria”.
In data 23 novembre 2017 hanno depositato controdeduzioni sia la società contribuente che il socio xxxxxxxxxxxxxxx, indicando le seguenti censure:
L’inammissibilità dell’appello dell’Ufficio notificato a mezzo PEC, per inesistenza della notifica;
L’inammissibilità della produzione documentale avvenuta in sede di appello e, in ogni caso, l’inidoneità della stessa a provare, da parte dell’Amministrazione finanziaria, che il giorno di emissione dell’avviso di accertamento la delega fosse ancora valida;
L’illegittimità dell’aggio, pari al 8% e nella misura di euro 607,76, che l’avviso di accertamento intima al contribuente di pagare dopo l’affidamento in carico , dell’atto all’Agente della riscossione. In subordine, la norma in questione, art. 29,comma 1 lett. f) del D.L. n. 78/2010, conv. in legge n. 122/2010, sarebbe incostituzionale per violazione degli art. 3 e 53 della Costituzione per mancanza di proporzionalità fra l’importo dovuto a titolo di aggio ed il costo del servizio prestato dal concessionario;
Motivazione apparente dell’atto impugnato, che non avrebbe valutato le osservazioni formulate dalla società ricorrente nel corso del contraddittorio avuto con l’Ufficio prima della emissione dell’avviso, come invece unanimemente richiesto dalla giurisprudenza della Cassazione (nn. 26635/09, 26636/09), ivi inclusa la richiesta di applicazione dello studio di settore in evoluzione con l’applicazione dei correttivi anticrisi;
Assenza del requisito delle “gravi incongruenze” ai sensi dell’art. 62 sexies del D.L. n. 331 del 1993, atteso che lo scostamento fra i ricavi dichiarati e quelli accertati con studio di settore si attesta intorno al 15% circa;
Natura di presunzione semplice degli studi di settore e necessità di valutazione della crisi economica che ha riguardato ogni attività commerciale dal 2008 in poi; Illegittimità dell’atto per omessa motivazione in ordine all’ammontare delle sanzioni irrogate, in assenza di qualsiasi valutazione dell’elemento oggettivo e soggettivo.
I contribuenti hanno quindi concluso per il rigetto dell’appello. In subordine, con la richiesta di rideterminazione delle sanzioni sulla base della normativa più favorevole al contribuente entrata in vigore dal 1° gennaio 2016 per effetto del D.Lgs. n. 158 del 2015.
DIRITTO
1.Va in primo luogo esaminata l’eccezione di inammissibilità dell’appello per difetto di notifica, sollevata dagli appellati, poiché la stessa è avvenuta a mezzo PEC mentre in primo grado era stata effettuata notifica secondo modalità cartacea. A tal riguardo i contribuenti menzionano un precedente della CTR di Firenze, che con sentenza n.137715/2017 ha stabilito che, in base alla facoltatività dell’utilizzo del processo tributario telematico, la scelta di utilizzo dello stesso va effettuata ab origine, ovvero sin dal primo grado.
La censura è infondata.
Dal 15 luglio 2017, il processo tributario telematico è attivo in tutto il Paese e, quindi, presso tutte le Commissioni tributarie, le parti hanno la facoltà, previa registrazione al Sistema informativo della giustizia tributaria (Sigit) di utilizzare la posta elettronica certificata per la notifica del ricorso, anche in appello, e di effettuare il successivo deposito in via telematica degli atti e documenti del processo.
L’articolo 16-bis, comma 3, del D.Lgs. 546/1992, in vigore dal 1° gennaio 2016, consente a ciascuna parte di avvalersi delle modalità telematiche di notifica e deposito di atti processuali, secondo le disposizioni contenute nel decreto Mef n. 163/2013 e dei successivi decreti di attuazione.
Ciò premesso, la Ctr Toscana, con la sentenza n. 780/6/2018, ha smentito il suo stesso precedente, citato dagli appellati, ed ha rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’appello notificato a mezzo Pec, sostenendo che il Dm 163/2013 non prevede alcuna preclusione alla possibilità di scegliere in grado di appello se adottare o meno le modalità telematiche.
Secondo la Ctr Toscana, quindi, il ricorrente in appello può legittimamente scegliere le modalità di notifica e deposito degli atti processuali, indipendentemente dalle modalità adottate in primo grado, fermo restando chiaramente l’obbligo prescritto dal terzo comma dell’articolo 2 del Dm 163/2013, ove si prevede che “la parte che abbia utilizzato _in primo grado le modalità telematiche di cui al presente regolamento è tenuta ad utilizzare e medesime modalità per l’intero grado del giudizio nonché per l’appello, salvo sostituzione del difensore”.
In senso conforme, la sentenza della Ctr Campania dell’8 maggio 2018, n. 4332/5/2018, ha precisato che è sufficiente la mera indicazione dell’indirizzo Pec nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per rendere operativo ope legis il relativo indirizzo come “elezione di domicilio digitale”, ai fini della valida notifica mediante Pec dell’atto di appello.
Tali argomentazioni sono pienamente condivise dal Collegio.
2.L’Ufficio ha depositato gli ordini di servizio che giustificano e comprovano la delega a sottoscrivere gli atti di cui è stato investito il Capo Team. Gli appellati lamentano la inidoneità della stessa a dimostrare l’attualità della delega al momento della sottoscrizione dell’avviso e contestano la produzione di tali atti solo in grado di appello. La doglianza è priva di pregio. In primo luogo, deve ritenersi consentita la produzione di documenti anche
in grado di appello, atteso che la stessa non contrasta con il dettato dell’art. 58 del D.Lgs. . 546/1992 e, nel caso di specie, non dà luogo ad ampliamento del thema decidendum.
In secondo luogo, la produzione degli ordini di servizio appare idonea a dimostrare l’intervenuta delega, così che l’atto impugnato può ritenersi promanante dall’Ufficio impositore; tale delega, peraltro, in mancanza di successiva revoca, deve considerarsi perfettamente valida anche all’atto della sottoscrizione degli avvisi di accertamento di cui si discute.
3.Va quindi precisato che l’eccepita illegittimità dell’aggio, per contrasto con gli artt. 3 e 53
della Costituzione, non trova riscontro nella recente ordinanza della Corte Costituzionale n. 65 del 2018.
Al riguardo si condividono le argomentazioni della Corte di cassazione, che con sentenza n. 3524 del 2018, richiamando le considerazioni già espresse in Sez. V, n. 5154 del 2017, in relazione alla medesima questione, ha sostenuto che la natura retributiva e non tributaria dell’aggio esclude il parametro della capacità contributiva e lascia alla discrezionalità del legislatore la fissazione dei criteri di quantificazione del compenso, non essendo irragionevole che una parte del compenso dell’organizzazione esattoriale sia posta a carico del contribuente. La questione di legittimità costituzionale – di cui peraltro, si ritiene assai dubbia la rilevanza, poiché essa attiene ad un vizio che, pur concernendo la disposizione censurata, non troverebbe riscontro ai fini della risoluzione del presente giudizio – è, dunque, manifestamente infondata.
4.Nel merito, l’appello dell’Ufficio non è meritevole di accoglimento. Osserva il Collegio che l’Ufficio ha omesso di valutare il materiale probatorio e argomentativo fornito in primo grado per contestare l’accertamento induttivo.
Sul tema, la Cassazione ha affermato che: “l’esito del contraddittorio non condiziona l’impugnabilità del/’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto /’applicabilità degli standard al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente, che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte (cfr. Cassazione, SS. UU. 26635/2009 e 11633/2013).
Quanto alla mancata valutazione delle circostanze fattuali e delle argomentazioni difensive, il Collegio osserva che la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità, in concreto, dello standard prescelto e delle ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
Come più volte affermato dalla Corte di cassazione, il contribuente ha, comunque, la possibilità di provare in giudizio, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustifichino l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard degli studi di settore, come pure la specifica realtà dell’attività economica nel periodo in contestazione.
Già in primo grado i contribuenti avevano fornito motivazioni a supporto del discostamento dei ricavi d’impresa, rappresentando una serie di circostanze concernenti la situazione concreta riferibile alla società accertata, quali ad esempio l’ubicazione della sede dell’esercizio, il reale apporto di forza lavoro dei due soci, in luogo di quanto dichiarato per mero errore materiale nello studio di settore, i redditi prodotti dalla società negli esercizi precedenti, ed in particolare nell’esercizio 2007, in cui i redditi dichiarati erano stati considerati “congrui” dall’Ufficio, nonché gli eventi contingenti che hanno direttamente inciso sull’attività di impresa nell’anno oggetto di accertamento e, conseguentemente, sui suoi risultati economici, ed in particolare la situazione di grave crisi finanziaria che aveva colpito il settore proprio a partire dall’anno 2008. I contribuenti, fra l’altro, ponevano in evidenza la mancanza di quella situazione di “grave incongruenza” di cui all’art. 62 sexies del D. L. n. 331 del 1993, atteso che la differenza percentuale fra i redditi dichiarati e quelli risultanti dallo studio di settore non raggiungeva il 15%. Di tali circostanze, benché genericamente indicate nell’atto impugnato, non è stata fornita alcuna concreta valutazione, per cui la motivazione appare del tutto carente.
Osserva il Collegio che, con specifico riferimento alla situazione di “grave incongruenza”, la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che la nozione di grave incongruenza non può essere ricavata avendo riguardo in via assoluta a precise soglie quantitative fisse di scostamento, essendo, invece, la nozione di indici di natura relativa da adattare a plurimi fattori propri della singola situazione economica, del periodo di riferimento ed in generale della stessa storia commerciale del contribuente destinatario dell’accertamento, oltre che del mercato e del settore di operatività (Cass. 22946/2015).
In particolare, in sede di contraddittorio l’Ufficio ha del tutto ignorato anche la richiesta di rielaborare i risultati applicando lo studio di settore in evoluzione (Gerico 201 O),con l’applicazione dei correttivi anticrisi.
La motivazione di tale diniego da parte dell’Ufficio, riportata sinteticamente nell’avviso di accertamento, ritiene applicabile in fase di accertamento solo gli studi di settore non comprensivi dei successivi interventi correttivi, ma tale affermazione si pone in contrasto con quanto risulta dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 34/E del 18 giugno 201 O, nella quale l’Agenzia ha chiarito che le risultanze degli studi di settore approvati in evoluzione con il decreto ministeriale 12 marzo 2010 possono essere utilizzate, ove più favorevoli al contribuente ed a richiesta del medesimo, oltre che per i periodi di imposta 2009, anche per quelli precedenti.
Nessuna concreta valutazione risulta essere stata fatta, dunque, delle precedenti motivazioni e della crisi economica che, a partire dall’anno 2008, aveva interessato anche l’esercizio dei ricorrenti, precludendone la normale attività e giustificando di conseguenza lo scostamento dei ricavi effettivi da quelli presumibili alla stregua dello studio di settore.
Ciò comprova che lo studio di settore fornisce in linea tendenziale affidabilità all’accertamento presuntivo, ma con possibilità per il contribuente di provarne l’infondatezza. Si realizza in concreto, per tali accertamenti, una presunzione relativa, iuris tantum, che può essere vinta con qualsiasi mezzo di prova, che i contribuenti, nel caso di specie, hanno fornito, ma che l’Ufficio ha totalmente disatteso.
Per le suesposte considerazioni, l’appello deve essere respinto.
Le spese di lite a carico del soccombente sono liquidate in euro 1.500,00
(millecinquecento/00).
P.Q.M.
Respinge l’appello e condanna l’Ufficio alle spese di lite, nella misura di euro 1.500,00 (millecinquecento)