Rito del lavoro: la giurisprudenza in materia di capitoli di prova generici o formulati per rinvio

Avv. Pino Cupito


Ai sensi del primo comma dell’art. 421 c.p.c.:

“Il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti”.

Ciò posto, nel rito del lavoro, l’orientamento consolidato della giurisprudenza sulla corretta formulazione dei capitoli di prova può essere sintetizzato come segue.

Qualora la parte nel proprio ricorso introduttivo abbia formulato dei capitoli di prova testimoniale con indicazione specifica dei fatti in articoli separati, ma abbia omesso di indicare le generalità delle persone che testimonieranno, non incorre in nessuna decadenza.

Ciò in quanto, il giudice può concedere alla parte un termine, ai sensi del richiamato art. 421 c.p.c., per sanare la propria formulazione indicando i nominativi dei testi.

Sotto altro aspetto, la giurisprudenza si è espressa anche su una prassi molto diffusa nelle aule di tribunale.

Ci si riferisce alla formulazione dei capitoli di prova testimoniale in modo irrituale rispetto a quanto previsto dall’art. 244 c.p.c. secondo il quale: La prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata.”

Il caso tipo è quello del difensore che, piuttosto che redigere i capitoli di prova in sede di richiesta istruttoria, deduce la prova testimoniale mediante un semplice rinvio alla narrativa del proprio atto introduttivo.

In pratica, esegue una sorta di sostituzione dei singoli capitoli di prova con una mera formula di stile come la seguente:

“…si indicano i sig.ri Tizio e Caio quali persone informate sui fatti ed in grado di rendere dichiarazioni su tutte le circostanze indicate in ricorso ai n. … precedute dalla locuzione “vero che”, da intendersi qui integralmente ritrascritti, espunte ed epurate dalle circostanze e dagli elementi valutativi e già documentati, ovvero su ogni altra circostanza di fatto che la S.V. riterrà utile e necessaria.”

Ebbene, dinanzi ad una simile formulazione dei capitoli di prova, riportati tramite il semplice rinvio alla narrativa contenuta nel corpo dell’atto, si può seriamente rischiare di incorrere in una declaratoria di inammissibilità della prova da parte del giudice per “irritualità” della formulazione medesima.

Difetta infatti in tal caso il requisito, richiesto per la prova testimoniale dall’art. 244 c.p.c., della “specificità”.

In con quanto appena considerato si è espressa anche la Cassazione (Cass. n. 1294/2018) stabilendo espressamente che la mancanza dell’indicazione specifica dei fatti e delle circostanze nella formulazione dei capitoli della prova testimoniale, è rilevabile d’ufficio e può rendere inammissibile la testimonianza stessa.

Inoltre un’espressione in atto come quella sopra riportata ovvero “…espunte ed epurate dalle circostanze e dagli elementi valutativi e già documentati, ovvero su ogni altra circostanza di fatto che la S.V. riterrà utile e necessaria…” si palesa del tutto irrituale.

Ciò in quanto, mediante una simile clausola di stile la parte tenta di stimolare i poteri istruttori del giudice, il quale non può inserirsi nell’attività istruttoria ed integrare o completare capitoli di prova formulati in modo non sufficientemente preciso.

Tale conclusione discende dal pacifico orientamento giurisprudenziale in merito alla corretta formulazione dei capitoli di prova testimoniale.

Tutto si focalizza sulla specificità dei capitoli medesimi ai sensi dell’art. 244 c.p.c.

Nello specifico, affinchè tale requisito possa dirsi rispettato è necessario che la parte, nel proprio atto di giudizio, vada a definire con sufficiente precisione gli elementi essenziali di tempo, di luogo e di svolgimento delle circostanze di fatto senza connotazioni formalistiche.

Tutto ciò al fine di consentire al testimone di riferire esclusivamente su fatti obiettivi limitandosi a descriverli.


Cassazione Civile, Sez. Lav., Ord. n. 22666 del 19.10.2020; Cassazione Civile, Sez. Lav., Ord. n. 139 del 07.01.2019; Ordinanza Trib. Pavia 25 maggio 2018 n. 234/2017.


Testo della Sentenza

Cassazione Civile, Sez. Lav., Ord. n. 22666 del 19.10.2020

Il Tribunale di Palmi accoglieva parzialmente la domanda proposta da Francesca (Omissis), riconoscendo che tra essa ed il dottor Antonio (Omissis), dentista, era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 1.7.93 al 30.6.2000, con mansioni di assistente alla poltrona riconducibili al IV livello del c.c.n.l. studi professionali, condannando il (Omissis) al pagamento della somma di €.65.050,53 per differenze retributive, lavoro straordinario e t.f.r.

Avverso tale sentenza proponeva appello il (Omissis); resisteva la (Omissis).

Con sentenza depositata il 16.10.15, la Corte d’appello di Reggio Calabria, in parziale accoglimento del gravame, disposta c.t.u. contabile ed escussi taluni testi, riduceva il credito ad €.35.991,28 per le medesime causali, compensando per metà le spese di lite del doppio grado, ponendo a carico del (Omissis) il residuo.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il (Omissis), affidato a sei- motivi, poi illustrati con memoria, cui resiste la (Omissis) con controricorso.

CONSIDERATO CHE

1.-Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e\o falsa applicazione degli artt. 112, 113, 414, 244 e 421 c.p.c., lamentando l’ammissione della prova testimoniale richiesta dalla ricorrente, senza tuttavia indicare i testi da escutere.

Il motivo è infondato.

Ed invero la costante giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. n.262\1997, Cass. sez. lav. nn. 16529\04, 16661\09, 17649\10, 12210\14, e 139\19) ha affermato, valorizzando il primo comma dell’art. 421 c.p.c., che nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l’atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale mediante indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, ma omettendo l’enunciazione delle, generalità delle persone da interrogare, non incorre nella decadenza della relativa istanza istruttoria, con la conseguenza che il giudice può fissare un termine, ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ., per sanare la carente formulazione.

La sentenza citata dal ricorrente (Cass. sez. 3 n. 5950\14) risulta pertanto assolutamente isolata, sicché questa sezione lavoro della Corte non può che ribadire il proprio costante orientamento, peraltro suffragato dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite.

Occorre del resto evidenziare che nel rito del lavoro è necessario che la parte indichi tempestivamente e sin dall’inizio le fonti materiali di prova (e cioè i fatti storici che intende provare) ma non le fonti formali di prova (es. capitoli della prova per testi, generalità dei testimoni, etc.), Cass. n.4180\03.

2.-Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la falsa applicazione degli artt. 99-101, 112, 244, 414, 420 e 421 c.p.c. Lamenta in sostanza che il primo giudice, confermato sul punto dalla sentenza impugnata, ammise la prova testimoniale ancor prima che la (Omissis) indicasse, come disposto dal Tribunale, i nominativi dei testi: ciò rendeva la prova attorea inammissibile, sicché parimenti inammissibile risultava la decadenza dalla controprova pronunciata in danno del (Omissis) dal Tribunale, sul punto confermato dai giudici di appello in violazione del principio della par condicio delle parti.

Il motivo è infondato posto che, come sopra detto, il giudice del lavoro può ammettere la prova, sulle specifiche circostanze in fatto indicate dalla parte istante, pur prive dell’indicazione dei nominativi dei testi (ordinando al contempo a tale parte a provvedere all’incombente entro il termine assegnato).

La mancata richiesta di prova di parte resistente nella memoria di costituzione viola invece apertamente il disposto dell’art. 416 c.p.c., secondo cui il resistente deve indicare a pena di decadenza’ i mezzi di prova di cui intende avvalersi.

Né ciò comporta una disparità di trattamento processuale tra le parti, rilevando sotto tale profilo che entrambe abbiano indicato ritualmente le fonti materiali di prova (id est i fatti che si intendono dimostrare), in un rito caratterizzato dai noti principi di concentrazione ed immediatezza, mentre l’indicazione delle fonti formali di prova, testimonianze e nominativo dei testi, rappresenta una irregolarità sanabile, a differenza della mancata indicazione delle fonti materiali di prova da parte del convenuto.

3-. Con terzo motivo il (Omissis) denuncia la violazione degli artt. 101, 112,115, 116, 244, 414, 420 e 421 c.p.c. per avere il primo giudice, sul punto confermato dalla sentenza d’appello, dapprima ridotto a due la lista dei testi da sentire, quindi ammettendone successivamente altri.

Il motivo è inammissibile, essendo pacifico che la riduzione della lista dei testimoni è rimessa alla discrezionale valutazione del giudice di merito (e plurimis, Cass. 22 aprile 2009 n. 9551) ed inoltre, al pari di ogni ordinanza, non ha alcun carattere decisorio e ben può essere revocata dal giudice.

3.-11 ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.200,00 per esborsi, €.4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.

Roma, così deciso nella Adunanza camerale del 9 luglio 2020

Il Presidente


Testo della Sentenza

Corte di Cassazione, Sez. Lav., Ord. n. 139 del 07.01.2019

RITENUTO

che:

la Corte d’Appello di Milano, con sentenza 304/2012, ha confermato la pronuncia di primo grado la quale aveva accolto l’opposizione proposta da (OMISSIS) scarl avverso la cartella esattoriale con la quale le era stato richiesto per conto dell’Inps il pagamento della somma complessiva di Euro 372.120,15 a titolo di omesso versamento di contributi previdenziali in relazione al periodo 2001-2005;

a fondamento della decisione la Corte sosteneva che – a prescindere dalla questione circa la non essenzialità della adozione del regolamento di cooperativa previsto dalla L. n. 142 del 2001, articolo 6, cui aveva attribuito pregiudiziale rilevanza nella decisione della causa il giudice di primo grado – nel caso di specie l’Inps fosse venuto meno all’onere di allegare e poi dimostrare i fatti costitutivi della pretesa contributiva, vale a dire che i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, intercorsi con i soggetti di cui all’elenco allegato al verbale ispettivo, dissimulassero un rapporto di lavoro subordinato ovvero avessero avuto un’esecuzione difforme dal loro contenuto;

nè potevano bastare le deduzioni istruttorie formulate in ricorso le quali avrebbero dovuto essere più specifiche essendosi invece l’INPS limitato alla generica indicazione, priva di riferimenti temporali e spaziali, relativa alla sussistenza dei parametri astratti individuati dalla giurisprudenza per la qualificazione della subordinazione;

indicando come testimoni tutti i lavoratori interessati individuati in un elenco, desunto dal verbale ispettivo, senza indicarli specificamente con un indirizzo o recapito, che attestassero un minimo di verifica della generica affermazione in fatto contenuta nel capitolo di prova; pure con riferimento ai due soci (OMISSIS) e (OMISSIS) la deduzione istruttoria era del tutto generica, anche in considerazione dell’oggetto dell’attività svolta;

contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Inps con due motivi con i quali deduce: 1) la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c., articoli 244, 420 e 421 c.p.c. (in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3) in quanto la tesi sostenuta dai giudici d’appello – che non avevano ammesso la prova per testi articolata dall’Inps in ricorso perché ritenuta generica e priva di riferimenti temporali e spaziali ed in quanto i testi non erano stati indicati specificamente con un indirizzo od un recapito – era in contrasto col principio più volte affermato in giurisprudenza secondo cui l’indicazione di testimoni priva di generalità o comunque incompleta non determina la decadenza dalla prova stessa;

2) l’ulteriore violazione degli articoli 420 e 421 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3) e l’omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia (articolo 360 c.p.c., n. 5) in quanto nella fattispecie in esame veniva in considerazione un’ipotesi di irregolare articolazione della prova che abilitava il giudice all’esercizio del potere dovere di cui all’articolo 421 c.p.c.; di conseguenza il giudice in ossequio all’articolo 134 c.p.c., ed al disposto di cui all’articolo 111 Cost., comma 1, sul giusto processo regolato dalla legge, avrebbe dovuto esplicitare le ragioni per le quali reputava di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o nonostante la specifica richiesta di una delle parti ritenesse invece di non farvi ricorso;

il fallimento (OMISSIS) scarl, che aveva partecipato al giudizio d’appello a seguito di rituale riassunzione nei suoi confronti, é rimasto intimato.

CONSIDERATO

che:

i motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per le questioni sollevate, devono ritenersi fondati atteso che, quanto alla mancata indicazione dei recapiti dei testi, l’assunto della Corte territoriale é errato in quanto, per consolidata giurisprudenza (cfr. Cass. n. 12210/14, Cass. n. 17649/10). “Nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l’atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l’enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all’esercizio del potere – dovere di cui all’articolo 421 c.p.c., comma 1, avente ad oggetto l’indicazione alla parte istante della riscontrata irregolarità e l’assegnazione di un termine perentorio per porvi rimedio, formulando o integrando le indicazioni relative alle persone da interrogare o ai fatti sui quali debbono essere interrogate; l’inosservanza di detto termine produce la decadenza dalla prova, rilevabile anche d’ufficio e non sanabile nemmeno sull’accordo delle parti”;

a maggior ragione, poi, non sussiste inammissibilità alcuna quando siano indicati i nominativi dei testi, pur senza il relativo recapito;

in ordine, alla asserita genericità dei capitoli di prova, va anzitutto chiarito che anche tale questione deve ritenersi censurata dall’INPS, come si ricava dalla consolidata giurisprudenza sull’interpretazione degli atti di parte legata non a formule sacramentali, ma operata in base alla lettura complessiva dell’atto nella sua interezza, considerati il contenuto sostanziale dell’atto medesimo, la natura della vicenda descritta e, soprattutto, la finalità che la parte intende perseguire col provvedimento chiesto in concreto (cfr., ad es., tra le tante, Cass. 10.2.2010 n. 3012; Cass. 13.9.2006 n. 19670; Cass. 4.8.06 n. 17760; Cass. 20.10.05 n. 20322; Cass. 28.7.05 n. 15802; Cass. 15.12.03 n. 19188; Cass. 16.7.02 n. 10314);

ciò posto, va rilevato che il giudice non può valutare la genericità d’una prova esaminando soltanto i capitoli formulati, dovendo invece esaminare tutte le circostanze di fatto comunque esposte nell’atto;

infatti la giurisprudenza di questa Corte é nel senso della non necessità, nel rito speciale, d’una istanza di prova necessariamente dedotta in capitoli separati (cfr. Cass. n. 19915/16; Cass. n. 6214/03);

e nel caso in esame tali circostanze, come si ricava dalla stessa sentenza impugnata, erano state compiutamente individuate dall’INPS, che aveva dedotto che a partire dal maggio 2001 con tutti i soci lavoratori erano stati stipulati dei co.co.co. redatti su modelli identici per tutti e nei quali l’oggetto della collaborazione era lo stesso per tutti e cioé lo svolgimento di prestazioni di lavoro di costruzione di edifici e di opere di ingegneria civile;

successivamente alcuni di questi soci (nominativamente indicati dall’INPS, sempre come emerge a pagina 6 della sentenza impugnata) erano stati assunti, in date e periodi differenti, come dipendenti in qualità di muratori e carpentieri, pur continuando a svolgere le stesse attività con le medesime modalità del periodo in cui figuravano come co.co.co;

inoltre, una prova come quella in discussione non può dirsi generica sol perché non siano meglio chiariti i riferimenti temporali e spaziali (come invece si legge nella pronuncia della Corte territoriale): infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte la disposizione dell’articolo 244 c.p.c., sulla necessità di un’indicazione specifica dei fatti da provare per testimoni non va intesa in modo rigorosamente formalistico, ma in relazione all’oggetto della prova, di guisa che, qualora questa riguardi un comportamento o un’attività che si frazioni in circostanze molteplici (come gli indici della subordinazione in un rapporto di durata come quello di lavoro), é sufficiente precisare la natura di detto comportamento o di detta attività in modo da permettere alla controparte di contrastarne la prova, attraverso la deduzione e l’accertamento di attività o comportamenti di carattere diverso, spettando peraltro al difensore e al giudice, durante l’esperimento del mezzo istruttorio, una volta che i fatti siano stati indicati nei loro estremi essenziali, l’eventuale individuazione dei dettagli (cfr. Cass. n. 11844/06; Cass. n. 5842/02);

neppure c’é bisogno di dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza di prova e l’errore addebitato al giudice, perché nel caso in esame l’errore consiste proprio nella denegata ammissione della prova, prova la cui decisività viene affermata dalla stessa sentenza impugnata nel momento in cui dalla sua mancanza fa derivare il rigetto della pretesa dell’INPS, in quanto non provata;

la ratio decidendi relativa all’asserita genericità dei capitoli di prova, risulta parimenti travolta dall’accoglimento della doglianza relativa al mancato esercizio del potere officioso di cui all’articolo 421 c.p.c., comma 1, doglianza espressamente formulata nel secondo motivo; dalla lettura complessiva del ricorso dell’INPS si ricava infatti che la censura avanzata in proposito é che, ove pure si ritenessero generiche le circostanze articolate (ma é comunque chiaro che l’Istituto non le ritiene tali ed effettivamente non erano generiche), ad ogni modo la Corte territoriale avrebbe dovuto motivare perché mai non ha fissato un termine per sanare l’eventuale irregolarità;

é pur vero inoltre che, secondo la giurisprudenza di legittimità, per dolersi del mancato esercizio di poteri officiosi bisogna averlo prima sollecitato in sede di merito, ma ciò non era necessario nel caso di specie perché il motivo d’appello verteva, appunto, sulla mancata ammissione di mezzi di prova ammissibili e rilevanti; sicché, in altre parole, la censura dell’INPS era ancora più ampia della mera richiesta di attivazione di poteri officiosi, perché in appello l’INPS sosteneva – come si desume dalla lettura della sentenza impugnata – ben più che la mera opportunità d’un esercizio di potere officioso: invocava il proprio diritto alla prova;

d’altra parte va considerato che, sin da Cass. S.U. n. 262/97 (e successive conformi), in giurisprudenza si é stabilito che nell’esercitare il potere di cui all’articolo 421 c.p.c., comma 1, il giudice deve indicare in ogni momento l’irregolarità che allo stato non consenta l’ammissione della prova, assegnando alla parte un termine per porvi rimedio;

e la formulazione dell’articolo 421 c.p.c., comma 1, é diversa da quella che si legge nel secondo comma: qui si dice che il giudice “può”, mentre lì si dice, puramente e semplicemente, che il giudice “indica” le irregolarità sanabili.

le considerazioni svolte impongono dunque di accogliere il ricorso, cassare la sentenza impugnata e rinviare la causa al giudice indicato nel dispositivo il quale si conformerà ai principi sopraindicati in merito all’ammissione delle istanze di prova dedotte dall’INPS;

il giudice del rinvio provvederà pure sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

 

 

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