Dott. Valerio Digregorio
Le condizioni di compatibilità tra patto di non concorrenza e diritto di opzione alla luce della posizione della giurisprudenza.
Tra gli obblighi fondamentali posti a carico del lavoratore nello svolgimento del rapporto di lavoro subordinato vi è quello di fedeltà, disciplinato dall’art. 2105 c.c.
Il lavoratore non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore né divulgare notizie sull’organizzazione e i metodi di produzione, o farne uso in modo da nuocere all’impresa.
Mediante la stipula del patto di non concorrenza si realizza una prosecuzione dell’obbligo di fedeltà del dipendente nei confronti del datore di lavoro per un determinato periodo di tempo successivo alla cessazione del contratto.
In base all’art. 2125 c.c., il patto di non concorrenza è il contratto a prestazioni corrispettive e a titolo oneroso per effetto del quale il datore si obbliga a corrispondere al dipendente una somma di denaro, a fronte dell’impegno del secondo di non svolgere attività concorrenziale per il tempo successivo alla cessazione del rapporto.
Il patto può essere concluso al momento dell’assunzione, nel corso del rapporto, al momento della cessazione o a rapporto terminato.
Il suo scopo è tutelare il patrimonio immateriale dell’azienda, nelle sue componenti tanto interne (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro) quanto esterne (avviamento, clientela, ecc.).
Compatibilità tra patto di non concorrenza e diritto di opzione
Tra le questioni più rilevanti nella disciplina del patto di non concorrenza vi è quella riguardante la sua compatibilità con il patto di opzione, disciplinato dall’art. 1331 c.c., che così recita:
“Quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile”.
Mediante tale clausola il patto di non concorrenza non esplica i suoi effetti immediatamente all’atto della sottoscrizione ma solo in seguito all’eventuale decisione da parte del datore di volersene avvalere.
In altre parole, fino a quando il datore non esercita l’opzione il patto di non concorrenza non produce effetti; la finalità dell’istituto è quella di consentire alla parte datoriale di differire ad un momento successivo alla stipulazione del patto di non concorrenza la valutazione circa la convenienza dello stesso.
La giurisprudenza ritiene compatibili i due istituti; il maggior dibattito ha avuto ad oggetto la validità della clausola di opzione che preveda la facoltà del datore di avvalersi del patto di non concorrenza successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro.
Secondo la giurisprudenza dominante (cfr. Cass., 2 gennaio 2018, n. 3, Cass., 4 aprile 2017, n. 8715) il diritto di opzione non può essere esercitato in un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.
“Il lavoratore deve esser messo in condizione di effettuare scelte sicure tali da consentirgli di ricercare una nuova occupazione in piena libertà o nei limiti e i confini previsti dal patto di non concorrenza, così potendo valutare la convenienza sia del patto, al momento della sottoscrizione dello stesso, che delle nuove proposte di lavoro” (Tribunale di Milano, 30 maggio 2007).
Non mancano, tuttavia, pronunce di senso contrario che hanno ritenuto legittimo l’esercizio del diritto di opzione successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro.
Uno sguardo alla giurisprudenza
In una recente sentenza, la n. 3 del 2 gennaio 2018, la Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti in ordine alla compatibilità tra patto di non concorrenza e diritto di opzione e al termine di esercizio di quest’ultimo.
Il caso riguardava la validità di un patto di non concorrenza sottoscritto tra una società e un responsabile commerciale di filiale, nel quale era previsto che quest’ultimo concedesse al datore di lavoro, in ragione della formazione professionale ricevuta, il diritto di decidere entro 30 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro se avvalersi o meno delle limitazioni del patto.
La società non aveva esercitato l’opzione e di conseguenza il patto di non concorrenza non era entrato in vigore.
Il lavoratore agiva in giudizio per richiedere il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza, sostenendo la nullità della clausola sul diritto di opzione.
In primo grado la domanda del lavoratore veniva respinta.
La Corte d’Appello accoglieva la domanda del lavoratore, giudicando nulla la clausola sull’opzione anche sull’assunto secondo cui l’attività formativa non poteva valere quale corrispettivo del diritto di opzione.
La Corte di Cassazione conferma la pronuncia della Corte d’Appello; secondo la Suprema Corte “la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative”.
Il diritto del datore di avvalersi o meno delle previsioni del patto di non concorrenza fino ai 30 giorni successivi alla cessazione del rapporto comprimeva in maniera illegittima il potere negoziale del dipendente, vincolato alle previsioni del patto di non concorrenza senza alcuna certezza in ordine al pagamento del corrispettivo dello stesso.
Inoltre, la clausola di opzione non garantiva alcun corrispettivo in favore del dipendente, in quanto “la formazione professionale costituiva già la causa del medesimo contratto, con conseguente illecita sperequazione della posizione delle parti nell’ambito dell’assetto negoziale e violazione della natura contrattuale dell’opzione”.
Alla luce di queste considerazioni la clausola di opzione veniva ritenuta nulla.
Nella sentenza n. 25462 del 26 ottobre 2017 la Corte di Cassazione ha affrontato un caso simile a quello della precedente pronuncia, giungendo però ad un esito opposto.
La vicenda vedeva come protagonista una lavoratrice che, al momento dell’assunzione, aveva sottoscritto con la società un patto di non concorrenza della durata di ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, subordinato però all’esercizio da parte del datore di lavoro dell’opzione di avvalersene o meno entro il termine di 30 giorni dalla cessazione del rapporto.
Il datore non aveva esercitato l’opzione successivamente alle dimissioni della lavoratrice; quest’ultima agiva in giudizio sostenendo che il patto di non concorrenza fosse valido ed efficace sin dalla sua sottoscrizione e che la decisione dell’azienda di non avvalersene costituisse un recesso unilaterale illegittimo.
In primo grado veniva accolto il ricorso presentato dalla lavoratrice e tale pronuncia veniva confermata in appello: il patto di non concorrenza era affetto da nullità, determinata dal totale sbilanciamento previsto in favore della parte datoriale che avrebbe avuto il potere di caducare il patto in qualsiasi momento, con un recesso unilaterale liberamente esercitabile.
La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dal datore di lavoro, precisa che:
“l’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitata. Si tratta quindi di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusiva iniziativa dell’opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale. Lo schema di perfezionamento non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto stesso, o, in mancanza, dal giudice. E, dunque, scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta.”
Nel caso di specie, dato che la società non aveva esercitato il diritto entro il termine contrattualmente previsto, l’opzione era venuta meno e, di conseguenza, il patto di non concorrenza era divenuto inefficace.
Conclusioni
L’opzione al patto di non concorrenza è una clausola accessoria abbastanza diffusa nella prassi mediante la quale lo stesso non produce effetto immediatamente all’atto della sua sottoscrizione ma solo in seguito all’eventuale decisione della parte datoriale, da far pervenire entro il termine concordato.
In altre parole fino a quando il datore di lavoro non esercita l’opzione, il patto di non concorrenza non produce effetti; non implicando un’immediata limitazione alla capacità contrattuale del lavoratore, la giurisprudenza ha giudicato i due istituti compatibili.
Le maggiori criticità si pongono in relazione all’esercizio del diritto di opzione in un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.
La giurisprudenza dominante (cfr. Cass., 4 aprile 2017, n. 8715, Tribunale Perugia, 26 aprile 2005) ha sostenuto la nullità della clausola di opzione che preveda la facoltà della parte datoriale di avvalersi del patto di non concorrenza successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro.
Ad avviso di chi scrive è necessario operare un bilanciamento tra gli interessi in esame, quello del datore di lavoro di differire ad un momento successivo alla stipulazione del patto di non concorrenza la valutazione circa la sua convenienza e quello del lavoratore di poter pianificare con certezza le proprie scelte lavorative una volta cessato il rapporto.
Tanto più il termine di esercizio del diritto di opzione è dilatato ad un momento successivo alla cessazione del rapporto quanto più si incorre nel rischio di comprimere e limitare le scelte lavorative del dipendente.
La previsione di un corrispettivo in favore del lavoratore, non limitato alla formazione professionale ricevuta nel corso del rapporto, può rappresentare un utile strumento volto a salvaguardare le esigenze del lavoratore.
E’ necessario tuttavia adottare un approccio cautelativo, consapevoli dei rischi nei quali un’azienda potrebbe incorrere in caso di contestazioni.