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Iniziamo con il precisare subito che, nell’ambito delle locazioni ad uso commerciale (quindi non abitativo), il canone che prevede degli incrementi di valore durante il periodo della locazione (c.d. “canone a scaletta”) è legittimo.
Tuttavia, prima di limitarsi ad una semplice affermazione, è bene sapere come in realtà funzioni nella pratica ed i limiti che si incontrano nel prevedere una simile pattuizione contrattuale.
Cos’è, a cosa serve e come funziona il “canone a scaletta”?
Il c.d. “canone a scaletta” è un particolare tipo di pattuizione che le parti inseriscono in un contratto di locazione ad uso commerciale.
Mediante tale clausola, le stesse prevedono che il canone di locazione, stabilito annualmente in un certo ammontare, subisca delle variazioni, in aumento e/o in riduzione, durante l’esecuzione del contratto.
Nella pratica, il canone a scaletta viene utilizzato per consentire al conduttore appena insediatosi nell’immobile un minor carico economico derivante dalla locazione, soprattutto nei primi periodi di esecuzione contrattuale.
Molto spesso, infatti, nelle locazioni ad uso commerciale, il conduttore provvedere in via preliminare anche alla ristrutturazione dell’immobile concessogli in locazione con un notevole esborso economico ulteriore rispetto al costo annuale della locazione.
Ebbene, a fronte di tale impegno economico il proprietario locatore può acconsentire quindi ad una provvisoria decurtazione del canone.
Ciò anche in considerazione del fatto che le opere di ristrutturazione dell’immobile da parte del conduttore attribuiscono certamente maggior valore alla proprietà locata.
Nello specifico, tale tipo di pattuizione prevede normalmente che, fissato un cerco un canone annuo di locazione, quest’ultimo venga poi concordemente decurtato di una somma man mano minore fino ad arrivare all’iniziale cifra annua convenuta.
Esempio
Tizio loca a Caio un locale commerciale per un canone annuo di euro 100.000 diviso in 10 rate mensili di euro 10.000.
Al fine di consentire a Caio la realizzazione di lavori di ristrutturazione dell’immobile senza troppi oneri economici, Tizio acconsente a che il canone di locazione di euro 100.000 venga per i primi tre anni ridotto di euro 40.000 (Caio pagherà 12 rate mensili di euro 5.000 mensili), per i successivi tre anni venga ridotto di una cifra pari ad euro 25.000 (Caio pagherà 12 rate mensili di euro 6.250 mensili) per poi ritornare, dal settimo anno in poi, all’originario importo annuale di euro 100.000 con 12 rate mensili di euro 10.000.
Cosa ne pensano i Giudici?
Quando si parla di canone di locazione c.d. “a scaletta” vengono in rilievo due specifiche norme ovvero gli articoli 32 e 79 della Legge n. 392/1978 (Legge sull’equo canone).
L’articolo 32 stabilisce che: “Le parti possono convenire che il canone di locazione sia aggiornato annualmente su richiesta del locatore per eventuali variazioni del potere di acquisto della lira.
Le variazioni in aumento del canone, per i contratti stipulati per durata non superiore a quella di cui all’articolo 27, non possono essere superiori al 75 per cento di quelle, accertate dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati.
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai contratti di locazione stagionale ed a quelli in corso al momento dell’entrata in vigore del limite di aggiornamento di cui al secondo comma del presente articolo.”
L’articolo 79 stabilisce invece al comma 1 che: “È nulla ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto o ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dagli articoli precedenti ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della presente legge.”
Un primo orientamento.
Invero, la questione del c.d. “canone a scaletta” è stata caratterizzata da un’intensa evoluzione giurisprudenziale e da una discussione ancora oggi dibattuta.
Ebbene, tenuto conto della combinazione delle norme sopra indicate, in materia di canone a scaletta, si è avuto un lunghissimo dibattito giurisprudenziale.
Per lungo tempo, in ambito di locazione ad uso commerciale, si è sostenuta l’assoluta “illegittimità” di qualunque clausola contrattuale che prevedesse una maggiorazione annuale e scalare del canone.
Nello specifico, la Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ. 6896/1987) affermava che, in tema di locazione di immobili ad uso “non abitativo”, la previsione del contratto con la quale le parti convenivano una maggiorazione annua del canone era da ritenersi illegittima.
Tale pattuizioni doveva ritenersi inammissibile quand’anche la maggiorazione annua del canone di locazione era pattuita dalle parti in misura fissa o in misura differenziata, anno per anno, a partire dal primo di locazione.
E ciò proprio in ragione di quanto previsto dall’art. 32 della L. n. 392 del 1978.
L’orientamento opposto.
Successivamente, le Corti hanno assunto un atteggiamento di progressiva apertura.
In particolare, la giurisprudenza della Cassazione ha ritenuto possibile, per le parti di un contratto di locazione ad uso commerciale, il ricorso allo strumento del “canone a scaletta”.
Nello specifico, i giudici hanno affermato che tale strumento – ossia la pattuizione del canone in misura differenziata e crescente durante il tempo della locazione – doveva ritenersi del tutto legittima.
Invero, il ragionamento della Suprema Corte è stato ben più complesso.
Infatti, la stessa acconsentiva all’inserimento di una simile clausola nel contratto di locazione soltanto qualora essa fosse stata giustificata da elementi ed eventi oggettivi già predeterminati dalle parti.
Tali elementi oggettivi, che nella stragrande maggioranza dei casi coincidevano con lavori di ristrutturazione dell’immobile locato da parte del conduttore, dovevano essere quindi del tutto diversi e indipendenti rispetto alle variazioni annue del potere d’acquisto della moneta.
Per contro, la clausola doveva ritenersi illegittima ai sensi degli articoli artt. 32 e 79 della Legge sull’Equo Canone nel caso in cui, a mezzo della stessa, le parti tentavano di neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria (cfr. Cass., nn. 5349/2009, 11608/2010, 10834/2011).
L’intervento della Cassazione
Da ultimo, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23986 del 26 settembre 2019, ha chiarito che nell’ambito di un contratto di locazione ad uso commerciale (dunque non abitativo), i contraenti sono liberi di stabilire che il canone sia in misura differenziata e crescente nel tempo (c.d. “canone a scaletta”).
Ciò purché tale pattuizione avvenga alla stipula del contratto di locazione e la clausola scalare non abbia un effetto puramente elusivo dei limiti all’aumento del canone imposti dalla legge.
Nello specifico, la Cassazione si discosta addirittura da quell’orientamento giurisprudenziale per il quale, ai fini della validità dell’introduzione del canone a scaletta nel contratto, era necessario prevedere gli elementi predeterminati e idonei a giustificare un canone in misura crescente nel tempo.
In particolare, la Suprema Corte specifica alcuni punti fondamentali:
- Non occorre dimostrare, nel contratto di locazione, l’esistenza di un collegamento tra l’aumento nel tempo del canone ed elementi oggettivi e predeterminati, diversi dalla svalutazione monetaria, idonei a incidere sul sinallagma contrattuale.
- L’introduzione di elementi predeterminati in contratto rappresenta soltanto una delle possibili modalità con cui si può introdurre nella locazione ad uso commerciale il canone a scaletta.
- Il canone a scaletta può trovare posto in contratto di locazione ad uso non abitativo mediante la previsione del pagamento di rate differenziate e crescenti nel tempo.
- Il canone a scaletta può essere previsto anche mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi più brevi a ciascuno dei quali corrisponde un canone passibile di maggiorazione.
Conclusioni
In ragione di tanto, dovrà ritenersi illegittima e nulla la clausola relativa al canone a scaletta, soltanto qualora risulti dal contratto di locazione (o venga provato in giudizio) che le parti contrattuali abbiano volutamente agito in tal modo al fine di neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria e di eludere i limiti quantitativi posti per legge.