L’obbligo di reperibilità può essere qualificato come orario di lavoro?

Avv. Alessandro Longo


Con due decisioni gemelle del 9 marzo 2021, nelle cause C-344/19 (D.J. radiotelevizija Slovenija) e C-580-19 (RJ contro Stadt Offenbach am Main), la Corte di Giustizia UE ha affermato che la reperibilità costituisce orario di lavoro (con le corrispondenti obbligazioni datoriali sul pagamento della retribuzione) solo nel caso in cui i vincoli imposti al lavoratore in regime di reperibilità comprimano significativamente la facoltà del medesimo lavoratore di gestire liberamente, nel corso dello stesso periodo, il proprio tempo libero.

Su questo presupposto, la Corte di Giustizia UE, richiamando i propri principi in materia, ha ritenuto che il periodo di reperibilità non sempre si qualifichi alla stregua di orario di lavoro, ma che sia necessario effettuare sul punto una valutazione caso per caso.

Vediamo nel prosieguo, alla luce dei principi enucleati dalle citate decisioni della Corte di Giustizia UE, in quale misura i periodi in regime di reperibilità possano essere qualificati come “orario di lavoro” o, al contrario, come “periodo di riposo”.

 

La prima fattispecie

La prima fattispecie analizzata dalla Corte di Giustizia UE (causa C-344/19) riguarda la prestazione di lavoro di un tecnico specializzato che opera in centri di trasmissione televisiva sloveni, il quale, dopo l’orario di lavoro, era obbligato per sei ore al giorno a restare a disposizione del datore di lavoro in “prontezza in regime di reperibilità.

Durante questi periodi di tempo, il tecnico specializzato poteva anche non rimanere nei pressi dei centri di trasmissione, sebbene dovesse essere raggiungibile per telefono e avesse l’obbligo di farvi ritorno in caso di necessità entro un’ora.

Posto che i centri di trasmissione erano posizionati geograficamente in luoghi difficilmente raggiungibili, il tecnico specializzato era costretto a soggiornare nei pressi dei medesimi centri senza possibilità, durante i suoi servizi di “prontezza in regime di reperibilità”, di dedicarsi ad altre attività.

Sulla scorta di questo presupposto, il tecnico specializzato riteneva che i periodi di “prontezza in regime di reperibilità” dovessero essere qualificati come orario di lavoro e conseguentemente remunerati, indipendentemente dal fatto che una prestazione lavorativa fosse stata concretamente svolta durante questi periodi.

 

La seconda fattispecie

La seconda fattispecie esaminata dalla Corte di Giustizia UE (causa C-580/19) riguarda la prestazione lavorativa di un vigile del fuoco attivo nella città di Offenbach am Main (Germania). Oltre al suo periodo di servizio ordinario, il citato vigile del fuoco aveva l’obbligo di restare a disposizione del datore di lavoro in regime di reperibilità.

Nel corso dei periodi in regime reperibilità, il lavoratore non aveva l’obbligo di essere presente in un luogo specificamente individuato dal datore di lavoro, ma doveva essere raggiungibile ed, in caso di allarme, doveva essere in grado di raggiungere i confini della città entro 20 minuti, indossando la divisa di servizio ed utilizzando il veicolo che era stato messo a sua disposizione dal datore di lavoro.

Alla luce di questa situazione, il vigile del fuoco adiva il Verwaltungsgericht (Tribunale di Darmstadt, Germania) per vedere interamente riconosciuto il periodo di “prontezza in regime di reperibilità” quale orario di lavoro ed essere remunerato di conseguenza.

 

L’elaborazione giurisprudenziale comunitaria

I Giudici nazionali interessati hanno rinviato, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia UE la questione chiedendo se, nelle fattispecie sopra esposte, il tempo di reperibilità debba essere considerato come “orario di lavoro” ai sensi dell’art. 2 della Direttiva 2003/88 (di seguito, la “Direttiva”).

Per rispondere a questo quesito, occorre partire dalla nozione di “orario di lavoro” che, ai sensi della citata Direttiva, è definito come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”[1]. Da tale nozione, è possibile estrapolare i tre requisiti necessari per la qualificazione dell’orario di lavoro[2]:

  • essere al lavoro, ossia nel luogo individuato dal datore quale luogo di svolgimento della prestazione;
  • essere a disposizione del datore di lavoro;
  • esercitare la propria attività lavorativa e le proprie funzioni.

La definizione di “orario di lavoro”, secondo il sistema della Direttiva e conseguentemente del diritto nazionale, va intesa in opposizione a quella di “periodo di riposo”, trattandosi di nozioni che reciprocamente si escludono[3].

Tuttavia, l’ormai nota visione “binaria” compendiata nella Direttiva, sulla scorta della quale si qualifica come “tempo di riposo” qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro, sconta diverse problematicità con riferimento ai “tempi legati al lavoro o di terzo tipo”. Questi tempi, infatti, sono difficilmente inquadrabili dal punto di vista giuridico sulla base dello schema tradizionale (per l’appunto, “binario”) fatto proprio dalla Direttiva comunitaria.

La Corte di Giustizia UE ha avuto modo di pronunciarsi sull’argomento, per la prima volta, con la sentenza Simap[4], attraverso la quale la medesima Corte ha tentato di accertare se le ore dedicate dai medici ai “servizi di guardia” (con presenza fisica nella struttura sanitaria, ma senza effettivo svolgimento dell’attività di lavoro), possano farsi rientrare nella nozione di “tempi di lavoro”, con conseguente computabilità di tale periodo nella durata settimanale della prestazione lavorativa.

A tale riguardo, i Giudici comunitari si erano limitati ad affermare che, nel caso di periodi di guardia, le condizioni dell’essere al lavoro e di trovarsi a disposizione del datore di lavoro venivano soddisfatte, mentre per quanto riguarda “l’attività effettivamente svolta” l’obbligo imposto a tali medici di essere presenti e disponibili sul luogo di lavoro per prestare la loro opera professionale doveva essere considerato rientrante nell’esercizio delle funzioni.

Con la sentenza Jaeger[5], la Corte di Giustizia UE ha sancito che il lavoratore obbligato alla presenza fisica sul luogo indicato dal datore di lavoro, manifestando una sostanziale disponibilità nei confronti di quest’ultimo, al fine di intervenire immediatamente in caso di necessità, soddisfi senza dubbio i requisiti della presenza sul lavoro e della messa a disposizione del datore di lavoro, ricorrendo invece il terzo elemento solo in presenza di talune circostanze, ove cioè occorra l’effettivo svolgimento dell’attività professionale.

In sostanza, la Corte integra il principio di diritto enunciato nella sentenza Simap, equiparando i medici in servizio di guardia svolto con le modalità della “vigilanza attiva” a quel personale medico che, espletando il medesimo servizio, è posto in condizione di godere del riposo (finanche di dormire) nei periodi morti, laddove non sia richiesto un intervento.

La giurisprudenza costituita dalle sentenze Simap e Jaeger, rende la nozione comunitaria di “orario di lavoro” meno rigida e più fluida rispetto alla formulazione che si rinviene nella Direttiva comunitaria, stabilendo che il ricorrere dei primi due elementi della nozione stessa (ossia la disponibilità del lavoratore connessa alla sua presenza sul luogo di lavoro) valga a realizzare le condizioni previste dalla norma.

 

I principi espressi dalla Corte di Giustizia UE nelle sentenze in commento

Partendo dalla nozione comunitaria di “orario di lavoro”, interpretata alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale intervenuta con le sentenze Simap e Jaeger, la Corte di Giustizia UE si è interrogata sulla qualificazione dei periodi di “prontezza in regie di reperibilità”.

Un periodo di “prontezza in regime di reperibilità”, pur quando non presupponga (a differenza dei periodi di guardia) la permanenza sul luogo di lavoro, deve essere interamente qualificato come “orario di lavoro” qualora i vincoli imposti al lavoratore nel corso del citato periodo pregiudichino in modo oggettivo e significativo la sua facoltà di gestire liberamente il tempo in cui i suoi servizi professionali non sono richiesti.

Diversamente, nel caso tali vincoli non siano sussistenti, soltanto il tempo connesso all’effettivo esercizio dell’attività lavorativa svolta nel corso di tali periodi dovrà essere considerato come “orario di lavoro”.

Ad avviso della Corte di Giustizia UE, soltanto i vincoli imposti al lavoratore da una norma nazionale, da un accordo collettivo o dal datore di lavoro potranno essere presi in considerazione per valutare se un periodo di guardia o prontezza sia “orario di lavoro”.

A tale proposito, invece, non hanno alcuna rilevanza le difficoltà organizzative che il periodo di guardia o prontezza può causare ad un lavoratore come conseguenza di elementi naturali o della libera scelta del medesimo lavoratore (ad esempio, tra gli altri, il carattere poco propizio per le attività di svago presenti nella zona da cui il lavoratore non può allontanarsi mentre è in regime di reperibilità).

Sulla scorta di tali principi, il Giudice nazionale è chiamato a valutare se ricorrono i presupposti per considerare sussistente nel caso di specie un orario di lavoro, prendendo in considerazione i seguenti elementi e principi:

  • la brevità del termine di cui dispone il lavoratore per riprendere la propria attività professionale a partire dal momento in cui il suo intervento viene sollecitato dal datore di lavoro. A tale proposito, però, occorrerà anche valutare le facilitazioni che vengono concesse al lavoratore (ad esempio, la messa a disposizione di un veicolo di servizio che permetta di beneficiare di deroghe al codice della strada);
  • la frequenza media degli interventi realizzati da un lavoratore nel corso dei suoi periodi di guardia o prontezza;
  • le modalità di retribuzione dei periodi di guardia o reperibilità, la cui regolamentazione rientra tuttavia nell’ambito delle disposizioni di diritto nazionale;
  • se i periodi non costituiscono orario di lavoro, essi rientrano nei periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale. Tuttavia, ciò non esclude più in generale l’obbligo del datore di lavoro di rispettare le norme sulla salute e sicurezza dei propri dipendenti, non potendo il medesimo datore di lavoro imporre ai propri dipendenti periodi di guardia o reperibilità che per la loro lunghezza o la loro frequenza rappresentino un rischio per la sicurezza o la salute dei lavoratori.

 

Riflessioni conclusive sull’istituto della reperibilità: ipotesi di tertium genus?

È apprezzabile lo sforzo con cui il Giudice comunitario ha tentato di discostarsi da un proprio orientamento più risalente, secondo il quale il “tempo di reperibilità” era incluso a pieno titolo nell’alveo della nozione di “periodo di riposo”, specie nell’ipotesi in cui il lavoratore fosse ampiamente libero di organizzare il proprio tempo e di curare i propri interessi affettivi, formativi e culturali.

Su questo presupposto, nell’impostazione iniziale della Corte, le ore in regime di reperibilità equivalevano in buona sostanza a periodi in cui il lavoratore poteva godere appieno (o quasi) del riposo contrattualmente previsto.

Con le sentenze in commento, l’elaborazione giurisprudenziale comunitaria fa dei passi in avanti, perché la Corte di Giustizia UE detta a favore dei Giudici nazionali dei criteri precisi ai quali i medesimi Giudici devono attenersi per qualificare, alla luce di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, la reperibilità come “orario di lavoro”. Pertanto, realizzandosi determinate condizioni, la reperibilità può rientrare anche nell’alveo della nozione di “orario di lavoro”.

Al di là della qualificazione della reperibilità in termini di “orario di lavoro” o di “periodo di riposo”, sono ancora molti i temi che restano aperti con riferimento a tale istituto, la cui ambiguità non può certo essere sottovalutata, anche perché è indubbio che il lavoratore posto in regime di reperibilità non possa mai avere la piena e totale disponibilità del proprio tempo.

Il passo ulteriore che sarebbe necessario fare in relazione a questo istituto è quello di considerare la reperibilità come a pieno titolo rientrante nel c.d. tertium genus dell’orario di lavoro, poiché, pur non essendo qualificabile alla stregua di un’effettiva prestazione di lavoro, la reperibilità condiziona nondimeno il riposo del lavoratore e la piena disponibilità di esso.

De iure condendo, quindi, non sarebbe inutile prospettare una più completa definizione di tale ipotesi di “confine”, la cui interpretazione e regolamentazione ha, ad oggi, trovato soluzioni poco appaganti nelle aule di tribunale. Ad esempio, potrebbe essere previsto – accanto ad un limite di orario tout court – un ulteriore e distinto limite riferito al “tempo legato al lavoro”; non solo lavoro e riposo, ma anche un tertium genus definito e disciplinato espressamente dal legislatore e da quest’ultimo munito di alcune garanzie, tra cui non può mancare quella retributiva.

L’istituto della reperibilità, alquanto diffuso nella prassi, può dunque essere elevato a paradigma di tale tertium genus.

Alessandro Longo – Avvocato in Milano


[1] La definizione comunitaria di “orario di lavoro” è ripresa testualmente dall’art. 1, comma 2, lett. a), D.lgs. n. 66/2003.

[2] Mattarolo, I tempi di lavoro, in Persiani-Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Contratto di lavoro e organizzazione (vol. IV – tomo II), CEDAM, Padova, 2012, p. 627, afferma che la nozione di orario di lavoro consta di tre elementi, necessariamente concorrenti, sebbene parte della dottrina tenda a svalutare il significato normativo del primo, posto che “essere al lavoro” si identificherebbe tautologicamente con il concetto di lavorare, considerato anche il diverso significato dell’espressione nelle lingue in cui la Direttiva è tradotta. Tuttavia, Trib. Bergamo, 23 marzo 2010, in GL, 2010, 17, p. 40, non ritiene necessaria la ricorrenza congiunta dei tre criteri dato che in ognuna delle situazioni il lavoratore si trova all’interno della sfera tecnico-organizzativa del datore di lavoro.

[3] Corte Giust., 1° dicembre 2005, causa C-14/04, Dellas e a c. Premier Ministre.

[4] Corte Giust., 3 ottobre 2000, causa C-303/98, Simap c. Conselleria de Sanidad y Consumo de la Generalidad Valenciana, nella quale viene affermato che “il servizio di guardia deve distinguersi dalla mera reperibilità, nel qual caso solo il tempo connesso alla prestazione effettiva deve essere considerato rientrante nell’orario di lavoro. Infatti, i lavoratori in reperibilità, pur essendo a disposizione del datore di lavoro, in quanto devono poter essere raggiungibili, possono gestire il loro tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi”.

[5] Corte Giust., 9 settembre 2003, causa C-151/02.

 

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