L’interdittiva antimafia e la falsa illusione di una portata ristretta agli appalti

Avv. Mario Caliendo

Il tema che affrontiamo è assai delicato, ma anche attuale alla luce delle conclusioni raggiunte recentemente dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 57 pubblicata il 26.3.2020.

In particolare, si affronta il tema della Informativa Antimafia Interdittiva, i presupposti per disporla e le conseguenze sul piano socio – economico.

Innanzitutto, bisogna chiarire che la documentazione antimafia è costituita, ai sensi del d.lgs. 159 del 2011, da:

  1. Informativa Antimafia;
  2. Comunicazione Antimafia.

La prima viene adottata, ex art. 91 del d.lgs. 159 del 2011, sulla scorta di indizi da cui il Prefetto trae il convincimento che esista il “pericolo” di un condizionamento mafioso dell’Azienda scrutinata, la seconda, invece, ex art. 67 del d.lgs. 159 del 2011, automaticamente al ricorrere di alcuni specifici presupposti ovvero essere sottoposti a misure di prevenzione dal Tribunale delle Misure di Prevenzione.

In particolare, il contenuto delle comunicazioni antimafia riguarda la ricorrenza o meno delle situazioni ostative di cui all’art. 67 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 e cioè della decadenza, sospensione o divieto di tenere rapporti con la Stazione Appaltante determinati dalla definitiva applicazione di misure di prevenzione antimafia,  derivante da sentenze penali di condanna o da altri provvedimenti del Tribunale.

Il contenuto delle informazioni prefettizie riguarda oltre che l’assenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto – di cui all’art. 67 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 – anche l’inesistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese controllate (art. 84, co. 2 D. Lgs. 159/2011), accertati mediante ulteriori indagini istruttorie.

Ovviamente le condizioni per l’adozione dell’una o dell’altra misura sono diverse così come le conseguenze ed i divieti.

Con la Informativa Antimafia Interdittiva, lettera A),  si dispone un “divieto” generalizzato a contrarre con la PA e quindi partecipare alle gare di appalto, mentre, con la comunicazione antimafia, lettera B), sussiste un “divieto” assoluto di poter intraprendere iniziative economiche o di iscriversi ad albi speciali.

In pratica quando si viene colpito da comunicazione antimafia interdittiva, l’azienda viene “cancellata” dal registro delle imprese od albi speciali. Ovviamente questo avviene perché la “comunicazione antimafia interdittiva” scaturisce da provvedimenti “giurisdizionali” definitivi adottati dal Tribunale delle Misure di Prevenzione.

In tale contesto, nel 2014, si inserisce l’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, che stabilisce al comma 1: «Quando in esito alle verifiche di cui all’articolo 88, comma 2, venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto adotta comunque un’informazione antimafia interdittiva e ne dà comunicazione ai soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, senza emettere la comunicazione antimafia».

Al successivo comma 2, la suddetta disposizione sancisce: «L’informazione antimafia adottata ai sensi del comma 1 tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta».

Proprio su tale ultima previsione introdotta nel 2014, il Tribunale di Palermo ha sollevato la questione di legittimità Costituzione della norma evidenziando che l’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 avesse esteso al settore delle autorizzazioni, tradizionalmente inciso dalla comunicazione antimafia, gli effetti dell’informazione antimafia, ampliando l’ambito di rilevanza del tentativo di infiltrazione mafiosa.

Il Tribunale di Palermo ritiene che una legislazione che affida tale radicale risposta ad un provvedimento amministrativo, quale è l’informazione antimafia, sostanzialmente equiparandola negli effetti ad un provvedimento giurisdizionale definitivo (le misure di prevenzione), pone dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost..

Per il Tribunale di Palermo è irragionevole ricollegare al rilascio dell’informazione antimafia interdittiva, dunque ad un atto di natura amministrativa, gli stessi effetti ‒ e cioè il divieto generalizzato di ottenere tutti i provvedimenti indicati nell’art. 67, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011, e la decadenza di diritto da tutti quelli eventualmente già ottenuti ‒ che il suddetto art. 67 riconnette all’applicazione con provvedimento definitivo di una misura di prevenzione personale, vale a dire alla definitività di un provvedimento di natura giurisdizionale.

Ciò apparirebbe irragionevole, secondo il Tribunale Siculo anche considerando che: − l’effetto dell’informazione antimafia interdittiva è immediato ai sensi dell’art. 91, comma 7-bis, del d.lgs. n. 159 del 2011, e non è subordinato alla definitività del provvedimento; − l’autorità amministrativa non può procedere ad alcuna esclusione delle decadenze e dei divieti, a differenza di quanto può fare il tribunale, in ragione della previsione dell’art. 67, comma 5, del medesimo decreto legislativo, «nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia».

La  questione sollevata dal Tribunale di Palermo non appariva manifestamente infondata, anzi era ben posta anche perché effettivamente, con la previsione dell’art. 89 bis del codice si equiparavano gli effetti della Informativa Interdittiva Antimafia ex art. 91 del codice antimafia a quelli della Comunicazione ex art. 67 che, però, come visto, hanno presupposti “originari” diversi.

Con la sentenza della Corte Costituzionale del 26.3.2020, il Giudice delle Leggi ha evidenziato che la norma non sia incostituzionale, utilizzando argomentazioni quali ad esempio la possibilità di “aggiornare” gli esiti della Informativa Interdittiva Antimafia e giustifica la “severità” della misura di equiparazione in ragione della tutela delle aziende “sane”.

Secondo il Giudice delle Leggi: “…Il dato normativo, arricchito dell’articolato quadro giurisprudenziale, esclude, dunque, la fondatezza dei dubbi di costituzionalità avanzati dal rimettente in ordine alla ammissibilità, in sé, del ricorso allo strumento amministrativo, e quindi alla legittimità della pur grave limitazione della libertà di impresa che ne deriva. In particolare, quanto al profilo della ragionevolezza, la risposta amministrativa, non si può ritenere sproporzionata rispetto ai valori in gioco, la cui tutela impone di colpire in anticipo quel fenomeno mafioso, sulla cui gravità e persistenza – malgrado il costante e talvolta eroico impegno delle Forze dell’ordine e della magistratura penale – non è necessario soffermarsi ulteriormente. In questa valutazione complessiva dell’istituto un ruolo particolarmente rilevante assume il carattere provvisorio della misura.  È questo il senso della disposizione dell’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, secondo il quale l’informativa antimafia ha una validità limitata di dodici mesi, cosicché alla scadenza del termine occorre procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, con l’effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione nell’albo delle imprese artigiane, nella specie, e in generale del recupero dell’impresa al mercato. E va sottolineata al riguardo la necessità di un’applicazione puntuale e sostanziale della norma, per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile…”.

Conseguentemente, oggi diventa fondamentale per le ditte raggiunte da Interdittive Antimafia chiedere alle Prefetture di loro appartenenza il c.d. “aggiornamento” così come, ha suggerito la Corte Costituzionale.

Anche perché ed in definitiva le imprese raggiunte da Informativa Interdittiva Antimafia non hanno solo un divieto a contrarre con le PA, ma un generale “divieto” ad esercitare impresa e di restare iscritte dalla camera di commercio od agli professionali speciali (Albo traportatori; Albo Nazionale per la gestione dei Rifiuti ed altri).

In ogni caso, si auspica un intervento del Legislatore più convinto al fine di non lasciare le imprese scoperte di tutela e magari rimeditare sull’istituto del 34 bis del codice che, a quanto pare, fa più “vittime” che “liberatorie” e questo, però, non è solo dovuto al legislatore ma anche allo spirito “inquisitorio” di alcuni controllori che interpretano in mal modo un ruolo che dovrebbe essere, appunto, alla liberatoria e non alla cancellazione della società.

 

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