Avv. Pino Cupito
Il licenziamento per giusta causa rientra nella categoria del più ampio licenziamento disciplinare.
Esso viene intimato dal datore di lavoro allorchè il dipendente si macchi di condotte particolarmente gravi che impediscono la prosecuzione del rapporto di lavoro e che impongono la chiusura immediata del rapporto medesimo.
Tale tipologia di licenziamento è differente dall’altro tipo di licenziamento disciplinare, ovvero quello per giustificato motivo soggettivo.
Quest’ultimo infatti si verifica quando il dipendente pone in essere dei comportamenti non corretti nei confronti dell’azienda e/o del datore di lavoro e/o dei clienti e/o dei colleghi ma che non hanno quel grado di gravità tale da comportare un licenziamento per giusta causa.
Ciò premesso, la Cassazione con la sentenza in commento interviene su una particolare fattispecie di licenziamento per giusta causa.
Nello specifico, la Corte si occupa del licenziamento dovuto a gravi condotte e comportamenti del dipendente verificatesi in data antecedente all’assunzione in servizio.
Nella pronuncia in oggetto si chiarisce che è ravvisabile una giusta causa di licenziamento ogniqualvolta viene irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto lavorativo, perchè il datore di lavoro deve poter confidare sulla leale collaborazione del proprio dipendente e sul corretto adempimento delle obbligazioni che dal rapporto scaturiscono a carico di quest’ultimo.
La fiducia, infatti è fattore fondamentale per la perduranza del rapporto di lavoro.
Essa, può essere compromessa, non solo a seguito di particolari inadempimenti del contratto di lavoro da parte del dipendente, ma a causa di condotte “extralavorative” ovvero assunte dal lavoratore al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e che quindi non riguardano lo svolgimento delle proprie mansioni.
Tali condotte possono essere talmente gravi da compromettere del tutto il vincolo fiduciario con la parte datoriale soprattutto qualora si ripercuotano sul rapporto di lavoro, anche solo potenzialmente ma in maniera oggettiva, compromettendo le aspettative del datore di lavoro a che il proprio dipendente svolga e adempia puntualmente le proprie obbligazioni.
In altri termini, secondo il citato orientamento giurisprudenziale la giusta causa è ravvisabile anche in relazione a fatti estranei all’obbligazione contrattuale, purchè tali fatti siano idonei ad incidere negativamente sul vincolo fiduciario esistente con il datore di lavoro.
Pertanto assumono ancor più rilevanza i comportamenti del lavoratore assunti durante l’esecuzione di un rapporto di lavoro antecedente (ad es. è stato ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente di banca che era stato rinviato a giudizio per reati commessi durante un precedente rapporto di lavoro presso altra banca).
Quindi in tali casi non si parla di illecito disciplinare in senso stretto, vale a dire quell’illecito che prevede l’inadempimento da parte del dipendente dei propri obblighi lavorativi.
Nella suddetta ipotesi può dunque essere comunque ravvisato un licenziamento per giusta causa poiché, ex art. 2119 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 1, tale licenziamento riguarda una condotta che benché si ponga come al di fuori del rapporto di lavoro, la stessa si palesa del tutto lesiva del vincolo di fiducia sussistente con il datore di lavoro.
Da ciò si desume che tutte le condotte extralavorative rilevanti ai fini di un licenziamento per giusta causa riguardano non soltanto la vita privata del dipendente ma si estendono a tutti gli ambiti di vita del lavoratore medesimo.
Infine, altro aspetto molto importante rilevato dalla Cassazione è quello riguardante le ipotesi di reato.
La Corte infatti afferma chiaramente che quando si parla di condotte extralavorative del dipendente antecedenti all’assunzione non si deve pensare alle sole ipotesi di reato e ad eventuali sentenze passate in giudicato a carico del lavoratore.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza in materia:
“Il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall’art. 27 Cost., comma 2, concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna; tuttavia, il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l’imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario – ancorchè non commessi nello svolgimento del rapporto – deve accertare l’effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l’adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, mentre non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest’ultimo sul rapporto fiduciario e sull’immagine dell’azienda”.
Testo della Sentenza
Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. n. 428 del 10.01.2019
Fatto
La Corte di Appello di Reggio Calabria ha respinto l’appello proposto da A.F. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato il 21 luglio 2008 dalla s.p.a. E.T.r., alla quale era poi subentrata l’Equitalia Sud s.p.a..
La Corte territoriale, per quel che ancora rileva in questa sede, ha premesso che l’ A. era stato licenziato una prima volta il 21 luglio 2006, aveva impugnato il licenziamento ed il Tribunale di Palmi aveva accertato l’illegittimità del recesso. Le parti avevano, quindi, composto la lite con verbale di conciliazione del 12 ottobre 2007, con il quale avevano convenuto l’assunzione ex nunc dell’A., il riconoscimento dell’anzianità convenzionale nonchè il pagamento di una somma, a titolo di transazione novativa e di rimborso delle spese legali. Poichè il licenziamento si fondava su fatti che erano stati oggetto di denuncia penale per i delitti di frode informatica e di accesso abusivo a sistema informatico, le parti avevano convenuto che in relazione al nuovo rapporto di lavoro non avrebbero prodotto effetti gli esiti del processo penale in corso, limitatamente ai fatti “analiticamente esposti nella contestazione disciplinare datata 15 maggio 2006”. Successivamente l’ A. era stato raggiunto da ordinanza di custodia cautelare e la società, dopo averlo sospeso dal servizio, aveva avviato il procedimento disciplinare in relazione alle condotte oggetto di indagine penale, diverse da quelle alle quali si riferiva la precedente contestazione.
Il giudice d’appello ha evidenziato che erano stati contestati plurimi episodi dai quali emergeva che l’ A., cooperando con altri dipendenti dell’unità operativa di Palmi, ove all’epoca prestava servizio, nonchè con personale dell’Agenzia delle Entrate, aveva disposto o comunque consentito sgravi indebiti di cartelle esattoriali, in alcuni casi sollecitati dal privato, il quale corrispondeva al funzionario infedele una somma inferiore all’importo effettivamente dovuto; in altri in danno dell’ignaro contribuente, che aveva già corrisposto le somme necessarie per estinguere il debito al proprio commercialista, il quale tratteneva per sè l’eccedenza.
La Corte territoriale ha escluso che la transazione novativa del 12 ottobre 2007 impedisse di avviare il procedimento disciplinare e di irrogare la sanzione espulsiva, posto che gli obblighi assunti con il verbale di conciliazione si riferivano solo alla frode informatica. La società, infatti, in sede conciliativa non poteva vincolarsi in relazione a fatti che alla stessa non erano ancora noti.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso A.F. sulla base di due motivi, ai quali ha opposto difese l’ADER – Agenzia delle Entrate Riscossione- successore di Equitalia Servizi s.p.a..
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, “violazione e falsa applicazione dell’art. 1965 c.c., nonchè degli artt. 2104,2105,2106 e 2119 c.c.” e sostiene, in sintesi, che la transazione sottoscritta il 12/10/2007 doveva essere qualificata novativa, in quanto le parti avevano convenuto di estinguere il vecchio rapporto di lavoro e di costituirne uno nuovo. Nel verbale conciliativo, infatti, era stato precisato che la risoluzione del precedente rapporto restava confermata al 4/7/2006 e che il riconoscimento convenzionale dell’anzianità di servizio avrebbe avuto effetti esclusivamente ai fini dei trattamenti di malattia, infortunio e ferie. Ciò premesso, il ricorrente addebita alla Corte territoriale di non avere esaminato le clausole dell’atto con le quali si era precisato che il periodo pregresso sarebbe stato valutabile solo nei limiti sopra indicati e di avere ritenuto che potessero avere rilevanza disciplinare anche le condotte risalenti ad epoca in cui il nuovo rapporto di lavoro non risultava instaurato. Sostiene al riguardo che una responsabilità disciplinare è ipotizzabile solo in relazione a fatti che si verificano quando già il rapporto è in essere ed aggiunge che condotte precedenti possono integrare giusta causa di licenziamento solo qualora costituiscano reato e vengano accertate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto. Nel caso di specie, al contrario, il recesso era stato esercitato senza attendere l’accertamento definitivo della responsabilità penale.
La seconda censura denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in quanto la Corte d’Appello avrebbe dovuto accogliere il gravame proposto dall’ A. e, quindi, condannare l’Equitalia Sud al pagamento di entrambi gradi di giudizio.
Il primo motivo, nella parte in cui addebita alla Corte territoriale di non avere esaminato le clausole dell’accordo transattivo dalle quali emergeva la natura novativa della transazione, è inammissibile perchè non coglie la ratio della decisione e, quindi, sviluppa censure non specificamente riferibili al decisum.
Il giudice d’appello, infatti, non ha escluso la novazione del rapporto ed anzi l’ha data per presupposta, fondando la pronuncia di rigetto solo sul contenuto del regolamento contrattuale, con il quale le parti, in relazione alla vicenda penale ancora in corso, avevano stabilito che non potessero essere nuovamente contestati i fatti oggetto della precedente iniziativa disciplinare. Ha aggiunto che nella fattispecie ciò non era avvenuto, perchè pacificamente il nuovo procedimento attivato non si riferiva alla frode informatica, oggetto della prima contestazione, bensì ad altri comportamenti che, sebbene tenuti in epoca antecedente, erano “sfociati nell’indagine penale soltanto nel 2008” e, quindi, non erano noti alla società al momento della conclusione dell’accordo transattivo.
Così motivando la Corte territoriale ha in sostanza ritenuto che, in difetto di un diverso regolamento pattizio, l’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro non impedisca al datore di lavoro di intimare il licenziamento per giusta causa in relazione a condotte tenute in epoca antecedente all’instaurazione del rapporto stesso.
3.1. Il motivo è, invece, ammissibile ma infondato nella parte in cui, ribadita l’autonomia del nuovo rapporto di lavoro, assume che condotte tenute dal lavoratore al di fuori del rapporto, perchè anteriori al sorgere del vincolo contrattuale, possono costituire giusta causa di licenziamento solo qualora integrino ipotesi di reato e la responsabilità penale sia stata accertata con sentenza passata in giudicato.
Da tempo questa Corte ha affermato che è ravvisabile una giusta causa di licenziamento ogniqualvolta venga irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto, perchè il datore di lavoro deve poter confidare sulla leale collaborazione del prestatore e sul corretto adempimento delle obbligazioni che dal rapporto scaturiscono a carico di quest’ultimo. La fiducia, che è fattore condizionante la permanenza del rapporto, può essere compromessa, non solo in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali, ma anche in ragione di condotte extralavorative che, seppure tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione, nondimeno possono essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti qualora abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività (cfr. fra le più recenti Cass. n. 24023/2016 e Cass. n. 17166/2016).
Se, dunque, la giusta causa è ravvisabile anche in relazione a fatti estranei all’obbligazione contrattuale, purchè idonei ad incidere sul vincolo fiduciario, “a maggior ragione assume rilevanza ai suddetti fini la condotta tenuta dal lavoratore in un precedente rapporto, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione” (Cass. n. 15373/2004 che ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente di banca rinviato a giudizio per reati commessi in occasione di un pregresso rapporto di lavoro intercorso con altro istituto di credito).
In tal caso, infatti, pur non potendo configurarsi un illecito disciplinare in senso stretto, che presuppone l’inadempimento degli obblighi scaturenti dal contratto e, quindi, che il rapporto sia già in atto, può essere comunque ravvisata una giusta causa di licenziamento, atteso che quest’ultima, ai sensi dell’art. 2119 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 1, non si riferisce solo alla condotta ontologicamente disciplinare, ma anche a quella che, seppure estranea al rapporto lavorativo, nondimeno si riveli incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario sul quale lo stesso si fonda.
In altri termini le condotte extralavorative che possono assumere rilievo ai fini dell’integrazione della giusta causa afferiscono non alla sola vita privata in senso stretto bensì a tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore e non devono essere necessariamente successive all’instaurazione del rapporto, sempre che si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al dipendente e dal ruolo da quest’ultimo rivestito nell’organizzazione aziendale.
3.2. Nè si può sostenere che la rilevanza delle condotte extralavorative antecedenti all’instaurazione del rapporto dovrebbe essere limitata ai fatti integranti fattispecie di reato e riconosciuta solo in presenza di una sentenza passata in giudicato che abbia accertato la responsabilità del dipendente.
Il principio di diritto invocato dal ricorrente è stato affermato da questa Corte in una controversia nella quale veniva in rilievo il codice disciplinare dettato dalle parti collettive, le quali avevano subordinato al passaggio in giudicato della sentenza di condanna la rilevanza della responsabilità penale per fatti estranei al rapporto di lavoro, sicchè, in quel caso, si era in presenza di una disciplina contrattuale di miglior favore, in quanto tale vincolante per il datore di lavoro e per il giudice (Cass. nn. 16260/2004 e Cass. n. 19053/2005).
Al di fuori di detta ipotesi, invece, trova applicazione l’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui “il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall’art. 27 Cost., comma 2, concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna; tuttavia, il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l’imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario – ancorchè non commessi nello svolgimento del rapporto – deve accertare l’effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l’adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, mentre non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest’ultimo sul rapporto fiduciario e sull’immagine dell’azienda” (Cass. n. 18513/2016 che richiama Cass. n. 29825/2008).
3.3. La Corte territoriale ha attribuito rilevanza a condotte tenute in epoca antecedente all’instaurazione del nuovo rapporto di lavoro e, dopo averle ritenute provate, le ha considerate idonee in ragione della loro gravità a giustificare il licenziamento per giusta causa, prescindendo dal definitivo accertamento della responsabilità penale. Poichè il dispositivo della sentenza è conforme a diritto il ricorso deve essere rigettato, potendo questa Corte limitarsi ad integrare la motivazione, nei termini sopra esposti, ex art. 384 c.p.c., comma 4.
Il secondo motivo è palesemente infondato, perchè il giudice d’appello ha regolato le spese sulla base del principio della soccombenza, che va applicato in relazione al decisum, sicchè non può essere censurato il capo della decisione facendo valere l’errore asseritamente commesso nella decisione del merito della causa.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza e vanno poste a carico di A.F..
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 6.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2019