Le ineliminabili certezze legate all’adozione del Modello organizzativo 231

Avv. Elpidio Garzillo

Il Legislatore estivo italiano ha licenziato, con il Decreto legislativo 231 del 2001, il frutto dell’evoluzione normativa  in tema di responsabilità amministrativa degli enti per fatti delittuosi commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti posti in posizione verticistico-aziendale o da soggetti sottoposti all’altrui direzione.

Oggi si ritiene concordemente superato l’impasse, non solo normativo ma anche psicologico, che non consentiva all’ordinamento di punire le organizzazioni societarie: i canoni di imputazione congegnati dall’ingegneria penalistica e costituzionalistica in tema di elementi costitutivi del reato, impongono di individuare sempre un soggetto – una persona fisica – al quale riferire gli effetti del suo agere giuridico, positivi o negativi.

Se si tiene ben in considerazione, poi, che l’ente è responsabile, con determinati temperamenti, per i reati commessi nel suo interesse o a nel suo vantaggio, questo significa che ogni singola particella di questo organismo, se non opportunamente governata, indirizzata, istruita, può esser potenzialmente dannosa per il core business societario.

Si è guardato oltre quindi, diremmo “ a cosa accade all’interno delle mura domestiche”, cercando di capire come questo nucleo sociale gestisca la propria convivenza e gestisca i rapporti esterni ad essa, attività queste, protese al raggiungimento di molteplici obiettivi valutabili sotto disparati aspetti ma, certamente, improntati sul rispetto della legalità.

Il cambiamento di rotta epocale oggi ci consente di guardare più avanti, permettendoci di porre sui piatti della bilancia da un lato chi “fisicamente” organizza, gestisce e opera per l’ente e, dall’altro, l’ente stesso: entità organicamente funzionali all’estrinsecazione di comportamenti giuridicamente rilevanti che, nelle intenzioni del legislatore del 2001, trovano nella “colpevolezza organizzativo/gestionale” il parametro di imputazione della pena.

Tale principio, su cui poggia la responsabilità dell’ente societario (definita di matrice amministrativa ma sostanzialmente penalistica), è il risultato di scelte di politica criminale chiare ed orientate a far emergere pratiche di business scorrette, contro la legge e, per i principi succintamente esposti in precedenza, tesi ad eludere i parametri legali di imputazione soggettiva.

Per di più, senza entrare troppo nelle scelte aziendalistiche proprie dell’ente, il Legislatore, ha però imposto delle regole a cui ogni ente dovrebbe ispirarsi nella conduzione degli affari, seguendo anche un’etica d’impresa che possa far ottenere a quest’ultima un elevato standing reputazionale, nazionale e/o internazionale.

Tale intento lo si è perseguito, altresì, nel diritto penale del lavoro con il Testo Unico Salute e Sicurezza di cui al d.lgs. 81/08, in cui ampiamente vengono dettate le regole e i comportamenti tesi a valutare e mitigare i rischi connessi alle differenti attività lavorative. Stesso dicasi per il Decreto Legislativo 231, ove si parla di predisposizione di “Modelli” da seguire e a cui ispirare la conduzione degli affari, prospettando una produzione giuridico-normativa sempre più orientata verso un diritto penale teso alla prevenzione a monte dei comportamenti potenzialmente delittuosi, piuttosto che repressione ex post.

Su questa scia, negli ultimi anni a fronte di una produzione giurisprudenziale sempre più copiosa sul tema, la Suprema Corte di Cassazione continua ad impartire principi chiari e tutti fondati sull’esigenza di un governo a monte dei rischi connessi con le attività aziendali.

Lo si è apprezzato anche recentemente sentenza nella quale viene confermato il principio in base al quale “in caso di omicidi e lesioni colpose addebitate all’amministratore unico di una società per infortunio a più dipendenti, per andare esente da responsabilità per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la Srl ha l’onere di dimostrare di avere efficacemente adottato, prima della commissione del reato, modelli gestionali ed organizzativi idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi. (Nella fattispecie, si sono rilevate al contrario l’assenza, pressoché generalizzata, di strumenti prevenzionali, la eclatante reiterata violazione delle stesse norme cautelari comuni, la violazione, anche attraverso procedimenti frodatori, dei precetti di legge). Ai fini della configurabilità della responsabilità dell’Ente per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, l’interesse o anche alternativamente il vantaggio vanno letti, nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza (dai più basilari e generici, quali la formazione e l’informazione, ai più specifici e settoriali), oltre che come incremento economico conseguente all’aumento della produttività, non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale e di quella regolante lo specifico settore lavorativo”[1].

Ancora una volta, l’adozione e l’efficace attuazione, prima della commissione del reato, del Modello organizzativo di gestione e controllo, si conferma quale strumento indispensabile ad un management “illuminato”, per metter al riparo l’ente da possibili condotte delittuose, diremo “anomale” perché non preordinate al conseguimento di obiettivi leciti societari, poste in esser da persone fisiche specifiche che agiscono nel suo interesse.

[1]              Cass. pen. Sez. IV, 19/05/2016, n. 31210

 

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