Demansionamento del lavoratore: la prova e il risarcimento del danno

Avv. Pino Cupito


Quando il lavoratore viene adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle originariamente pattuite al momento dell’assunzione, si può essere in presenza di una violazione dell’art. 2103 del codice civile.

Questa violazione normativa può ravvisarsi anche nel caso in cui, pur non verificandosi un vero e proprio demansionamento, il datore di lavoro impedisce al dipendente di eseguire le proprie mansioni o addirittura di non eseguirne alcuna.

Ad esempio, potrebbe verificarsi che il datore di lavoro crei ad hoc le condizioni necessarie affinché il proprio dipendente non sia più in grado di esplicare le proprie mansioni in azienda.

In tali circostanze, oltre alla violazione del predetto articolo 2103 c.c., si verifica la contestuale violazione di un diritto del lavoratore costituzionalmente garantito, ovvero quello della libera esplicazione della propria personalità presso i luoghi ove si svolge la prestazione lavorativa.

Tale diritto è inoltre sancito dagli artt. 1 e 2 della Costituzione.

Il tutto, con un consequenziale diritto del lavoratore al risarcimento dei danni subiti in virtù della illegittima condotta della parte datoriale.

Ciò posto, una volta verificatosi il demansionamento del lavoratore, viene immediatamente in rilievo la contestuale responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Detta norma impone all’imprenditore nell’esercizio dell’impresa l’adozione di tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti.

Vengono altresì in rilievo altre due norme in materia di responsabilità contrattuale della parte datoriale intesa come parte debitrice ed in materia di risarcimento del danno nei confronti del lavoratore ovvero:

  1. l’art. 1218 c.c. che dispone che: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.”
  2. e l’art. 1223 c.c. per i quale: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.”

 

La prova del demansionamento

La giurisprudenza della Cassazione sostiene che in caso di demansionamento non scatti automaticamente il risarcimento del danno per il lavoratore demansionato.

In particolare gli Ermellini sostengono che: “…nel demansionamento non è configurabile un danno risarcibile in re ipsa, poiché quest’ultimo rappresenta una conseguenza possibile, ma non necessaria, della violazione delle norme in tema di divieto di mobilità professionale “verso il basso”. L’oggettiva consistenza del pregiudizio derivante dal demansionamento (e il nesso causale) va, perciò, provato, dal lavoratore che ne domandi il risarcimento, anche attraverso presunzioni.” (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent. n. 13484/2018)

Infatti, il lavoratore che ritenga di esser stato leso, dovrà sempre fornirne in giudizio la prova del danno che ha subito o che sta subendo a causa del demansionamento.

In particolare, dovrà fornire al giudice la dimostrazione del nesso che intercorre tra l’inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro ed il danno che asserisce di aver subito.

Inoltre, dovrà indicare in via analitica l’ammontare del proprio danno economico anche ai fini della quantificazione del conseguente risarcimento.

Potranno quindi essere utilizzati tutti gli strumenti probatori concessi nell’ambito del rito del lavoro.

In primo luogo potranno essere prodotte le prove precostituite come i documenti aziendali, la corrispondenza, eventuali ordini del giorno e/o di servizio ed ogni ulteriore prova documentale utile a dimostrare la dequalificazione professionale.

Inoltre, il demansionamento potrà essere provato per testimoni (colleghe e/o soggetti terzi) i quali dovranno presenziare in udienza e conferire su precisi e specifici capitoli di prova atti a confermare non solo l’effettiva illegittimità della condotta del datore di lavoro, bensì l’impiego del lavoratore leso in mansioni minori che non gli competono in raffronto al livello di specializzazione e/o di professionalità posseduto nonché in raffronto alle mansioni svolte presso il medesimo datore di lavoro prima del demansionamento.

Molto importanti saranno inoltre le prove per presunzioni ovvero quelle “conseguenze” che la legge o il giudice traggono da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto.

Il tutto attraverso un complesso ragionamento deduttivo.

La giurisprudenza indica tutti gli elementi che possono concorrere a fondare il convincimento del giudice in ordine all’effettiva sussistenza di un caso di demansionamento ed in particolare:

  1. la “durata” del demansionamento;
  2. la “gravità” della dequalificazione;
  3. la “conoscibilità” del demansionamento presso i luoghi di lavoro e fuori;
  4. la “frustrazione” delle precise e ragionevoli aspettative di progressione professionale;
  5. le eventuali “reazioni” avute dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro che possano provare la rottura del rapporto relazionale;
  6. gli “effetti negativi” prodotti dal demansionamento sulle abitudini di vita del lavoratore.

La Cassazione ribadisce infatti chiaramente che:

“…in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto” (Cass. 03.07.2018, n. 17365, inoltre, ex plurimis, Cass. 18.08.2016 n. 17163, Cass. 01.03.2016 n. 4031, Cass. 04.02.2015 n. 2016, Cass. 26.01.2015 n. 1327, Cass. 19.03.2013 n. 6797, Cass. 23.03.2012 n. 4712).

È ovvio che prima di procedere con la prova sul danno subito dal lavoratore, si rende necessaria l’indagine del giudice in ordine all’imputabilità in capo al datore di lavoro dell’asserito demansionamento in ossequio al dettato dell’art. 1218 c.c. che stabilisce espressamente che: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Sul punto, la giurisprudenza della Cassazione ha avuto modo di chiarire che, nel caso in cui un lavoratore deduca in giudizio l’esistenza di un demansionamento, il datore di lavoro deve necessariamente provare di aver esattamente adempiuto ad ogni suo obbligo contrattuale, così come sancito dall’art 2103 c.c..

Per tal verso, quest’ultimo dovrà dimostrare che, invero, il demansionamento e/o la dequalificazione professionale del proprio dipendente non è mai avvenuta.

In altri termini, il datore di lavoro deve riuscire a dimostrare di aver adibito il proprio lavoratore all’espletamento di compiti coerenti con le mansioni per le quali è stato assunto e con il bagaglio tecnico e professionale di cui lo stesso è dotato, senza aver operato alcun mutamento in peius dei compiti lavorativi.

Potrà inoltre dimostrare che il demansionamento medesimo ha una precisa “giustificazione” rappresentando null’altro che un adempimento compiuto nel legittimo esercizio dei propri poteri datoriali e come tale in alcun modo imputabile.

In altre parole, la responsabilità del datore di lavoro deve essere esclusa, oltre che in caso di esistenza di una causa di giustificazione legata al normale esercizio di poteri imprenditoriali di cui all’art. 41 Cost. o di poteri di carattere disciplinare, anche quando il demansionamento deriva da una causa non imputabile al datore di lavoro medesimo.

 

Il danni provocati dal demansionamento

I danni che il lavoratore potrebbe richiedere a seguito di un demansionamento possono essere:

  1. il danno professionale;
  2. il danno all’integrità psico-fisica (danno biologico);
  3. il danno esistenziale

Naturalmente, in considerazione delle complessità dei danni sopraindicati, si renderà necessario che il lavoratore produca in giudizio prove molto dettagliate ed esaustive in ordine alle lesioni che asserisce di aver subito in conseguenza dell’illegittimo demansionamento da parte del proprio datore di lavoro.

Pertanto, quando si parla di “danno professionale”, quale danno di natura patrimoniale, ci si riferisce alla diminuzione della professionalità del lavoratore demansionato e all’impoverimento delle acquisite capacità professionali.

Tale voce di danno si riferisce inoltre alla possibile perdita di occasioni di crescita professionale in ambito aziendale e dunque alla possibile perdita di nuove occasioni di guadagno.

Ancora, potrebbe trattarsi della temporanea e/o definitiva perdita di concrete possibilità di profittare di altre situazioni propizie in ambito professionale e lavorativo.

Per tal verso, il lavoratore deve dimostrare, in corso di causa, che il normale svolgimento delle proprie corrette mansioni lavorative gli avrebbe garantito il raggiungimento di tutti i vantaggi sopra elencati.

Vantaggi che purtroppo non sono più conseguibili a causa del demansionamento da parte del datore di lavoro.

Si parla invece di “danno biologico” riferendosi alla lesione all’integrità psicofisica del lavoratore.

Il demansionamento può infatti generare problematiche specifiche di natura fisica e/o psichica nel dipendente che lo subisce.

Tali danni, vengono in giudizio preliminarmente accertati nella loro effettiva esistenza tramite l’accertamento medico-legale di un CTU e soltanto a seguito del raggiungimento della relativa prova potranno essere quantizzati e liquidati sotto il profilo economico in favore del lavoratore.

Infine per “danno esistenziale” si intende il “…pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”. 

Si tratta, infatti, di pregiudizi verificabili in concreto e dimostrabili mediante la prova certa di un veritiero cambiamento della propria vita conseguente e strettamente connesso con il demansionamento subito.

Sul punto la Cassazione sostiene espressamente che:

“Nell’ipotesi di demansionamento, il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. (Nella specie, la S.C. ha ravvisato una violazione dell’art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico, nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro dalla cassa integrazione, non erano stati assegnati compiti da svolgere, era stato disattivato il telefono e non era stato consentito di sostituire personale assente per maternità, nonostante le reiterate richieste).” (Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 9901 del 20.04.2018)

Molto importante però è anche l’atteggiamento assunto dal lavoratore in conseguenza del demansionamento. Di frequente infatti si registrano condotte di dipendenti demansionati che altro non fanno che rendere la relativa posizione non più tutelabile come dovrebbe.

E sul punto la Cassazione stabilisce che:

“Il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi senza avallo giudiziario di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, o che sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello di accertamento dell’illegittimità del licenziamento del lavoratore che, adibito a mansioni inferiori per circa due mesi, aveva eccepito l’inadempimento datoriale e si era assentato per oltre quattro giorni dal posto di lavoro).” (Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. n. 836 del 16.01.2018).

 

 

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