Avv. Giuseppe Gentile
L’obbligo motivazionale nella costituzione e nella legge
L’art. 111 sesto comma della Costituzione prescrive che “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”.
La norma esprime un preciso imperativo, valutabile in termini di responsabilità del magistrato, di esplicitare le ragioni che stanno alla base delle pronunce giudiziali.
Una simile chiave di lettura è avallata da quegli autorevoli autori secondo cui la vera funzione della norma sarebbe quella di costringere il giudice ad “uscire allo scoperto”: a mettere in gioco la propria “reputazione professionale” manifestando le motivazioni della propria decisione (così, Francesco P. Luiso, Istituzioni di Diritto Processuale Civile, Giappichelli – Torino 2003, pag. 50).
Riteniamo che dalla norma costituzionale sia desumibile un diritto soggettivo del cittadino alla giusta e corretta motivazione, in funzione in primis dell’esercizio della facoltà di critica in fase di gravame.
In tal senso, la dottrina costituzionale ha sottolineato che la norma è posta a garanzia della legittimità delle pronunzie, al precipuo scopo di permettere un controllo più penetrante in sede d’impugnazione (cfr. Paolo Barie, Istituzioni di Diritto Pubblico, Cedam – Padova 1982, pag. 355).
Ulteriore fondamento positivo dell’obbligo in parola è rinvenibile nell’art. 132 del codice di procedura civile che disciplina il contenuto formale minimo della decisione, necessario per produrre quell’effetto di certezza giuridica che è lo scopo del giudicato (Cass. 8842/2003; Cass. 12363/1999).
Ebbene tale articolo pone la motivazione – ovvero la “concisa esposizione degli elementi di fatto e diritto della decisione” – tra gli elementi costitutivi tipici della sentenza civile.
La motivazione “apparente” nella giurisprudenza della Cassazione
La dottrina e la giurisprudenza, intervenendo sulla corretta portata ermeneutica delle norme anzidette, hanno avuto cura di delinearne l’afferente contenuto precettivo individuando:
- da un lato, i requisiti che la motivazione deve avere affinché possa ritenersi assolto l’obbligo motivazionale, cioè la sufficienza, la logicità e l’ordine (cfr. Cian – Trabucchi, Commentario Breve al Codice di Procedura Civile, Cedam 2015, pag. 566);
- dall’altro, quelle fattispecie in cui il giudice civile, chiamato a dirimere una controversia inter partes, elude il dato normativo con una motivazione che, seppur formalmente visibile, è da considerare “tamquam non esset” dal punto di vista sostanziale. Ciò in quanto la motivazione addotta si presenta intrinsecamente inidonea a far percepire le reali ragioni che stanno alla base della statuizione adottata (13733/2014; 13426/2004; 1532/2000; 5098/1988; 1125/87).
Ed è quest’ultimo aspetto che vogliamo approfondire in questa sede.
Segnaliamo, all’uopo, gli innumerevoli precedenti della Suprema Corte secondo i quali la motivazione di una sentenza è soltanto “apparente”, quando, nonostante sia graficamente esistente, non renda tuttavia percepibile il fondamento concreto della decisione: conseguentemente la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo” (per violazione delle norme in parola).
Tale ipotesi ricorre quando la pronuncia reca argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal magistrato per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarlo con le più varie e ipotetiche congetture (in tal senso, la recentissima Cass. civ. Sez. V, Ord., 05/02/2020, n. 2650; conformi Cass. civ. Sez. VI – 5 Ord., 22/03/2019, n. 8264; Cass. SS.UU. 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., 15 giugno 2017, n. 14927).
La sentenza, dunque, deve essere permeata da un’imprescindibile linea logico-razionale che faccia comprendere, esplicitamente, le premesse fattuali e le ragioni giuridiche che hanno condotto alla res decidendi.
Ne consegue, che il magistrato estensore non può delegare l’interpretazione del proprio pensiero al lettore.
Al contrario lo stesso deve esternarlo in maniera chiara ed immediatamente percepibile, così da agevolare la contestazione del proprio decisum, in funzione della piena esplicazione del diritto di difesa attraverso l’impugnazione del provvedimento.
Particolarmente significativa sull’argomento si profila, altresì, la Cass. civ. Sez. VI – 5 Ord., 19/01/2018, n. 1461 la quale ha aggiunto che il vizio di motivazione “apparente” della sentenza ricorre quando il giudice, tralasciando di chiarire le reali argomentazioni che lo hanno condotto alla propria determinazione, non consenta di verificare se abbia effettivamente giudicato “iuxta alligata et probata” (ovvero sulla base di quanto allegato e provato dalle parti in causa).
Il divieto di motivazioni astratte e non collegate ai dati istruttori
L’ultima parte della massima testé riportata ci conduce a cogliere un altro significativo aspetto del tema che ci occupa.
Nello specifico, si rinsalda con forza il principio di diritto, tutt’altro che scontato, per cui le sentenze devono essere plasmate in aderenza alle peculiarità del caso concreto, in modo da trasfondere in motivazione il dovuto rilievo alle deduzioni difensive ed ai riscontri probatori forniti dai soggetti processuali.
Una sentenza non può mai risolversi in apodittiche affermazioni di principio, avulse dalle evidenze istruttorie in quanto riconducibili alla percezione (e/o all’affermazione) puramente soggettiva del magistrato ovvero al mero rinvio “per relationem” ad altri dati processuali (si pensi al caso, su cui torneremo infra, in cui il giudice d’appello si limiti a condividere in maniera acritica e sommaria la sentenza impugnata).
Di converso, una pronuncia giurisdizionale deve essere connotata da una necessaria correlazione logico-giuridica, tra i fatti oggettivi del processo e l’afferente impianto motivazionale, ben percepibile nelle argomentazioni “autosufficienti e comprensibili” dell’estensore del provvedimento, a cui compete un’approfondita disamina degli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento.
E così, nella citata sentenza n. 2650/2020, la Suprema Corte ha puntualizzato che il giudice tributario deve dimostrare di aver valutato lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dall’applicazione degli studi di settore in relazione alle peculiarità della concreta attività economica esercitata e, in particolare, alla luce delle giustificazioni addotte dal contribuente.
Nel caso di specie, infatti, il ricorrente aveva addotto varie giustificazioni allo scollamento rispetto agli studi di settore – che risultano basati su una presunzione semplice – quali la sostituzione dell’anziano amministratore, le rimanenze di magazzino di merce accumulatasi in vari anni e non collocabili sul mercato italiano, la valutazione dei macchinari ormai obsoleti.
Ciò nonostante il giudice dell’appello, nella fattispecie, si era limitato a considerare tale scollamento senza valutare compiutamente le prove addotte per vincere tale presunzione semplice.
Da qui ne è conseguita, per i giudici del Palazzaccio, una pronuncia assolutamente astratta ed avulsa dal caso concreto prospettato, che non dà conto dell’iter logico seguito per giungere all’impianto dispositivo, in tal guisa incorrendo nel lamentato vizio di nullità ex art. 360, n. 4, c.p.c. per sostanziale omissione della motivazione.
Dal contenuto “statico” al contenuto “dinamico” della motivazione
La giurisprudenza di legittimità, con un ulteriore slancio interpretativo, esorta i giudici a conferire linfa vitale alle proprie decisioni, decretando il susseguente passaggio da una prospettiva “statica” ad una visione “dinamica” della dichiarazione motivazionale.
In tal senso si è pronunciata, la Cassazione (tra le tante Cass. civ. Sez. V, 18/11/2016, n. 23484) ribadendo che la motivazione della sentenza deve ritenersi omessa e/o insufficiente e/o illogica quando il giudice di merito omette di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logico-giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sulla esattezza e sulla logicità del ragionamento perseguito.
Ai fini della sufficienza della motivazione, invero, non basta che il giudice si limiti ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, giacché questo è solo il “contenuto statico” della motivazione, essendo, altresì, necessaria la descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione iniziale di ignoranza dei fatti, alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario “contenuto dinamico” della motivazione stessa (conformi Cass. n. 1236 del 2006; n. 27935 del 2009, n. 15964 del 2016; Cass. civ. Sez. V Ord., 31/05/2018, n. 13882; Cass. civ. Sez. V Ord., 03/04/2019, n. 9257).
La motivazione “per relationem” della sentenza d’appello
Con specifico riferimento al giudizio di gravame è stato precisato, altresì, che la motivazione “per relationem” della sentenza di appello è legittima purché renda percepibili e comprensibili le ragioni della statuizione di secondo grado, in relazione ai motivi di appello specificamente proposti dalla parte istante.
Viceversa, nel caso in cui il giudice di merito non compia (o compia inadeguatamente) una disamina logica e giuridica degli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento, rinviando genericamente ed acriticamente a:
- motivazioni del giudice a quo ovvero al quadro probatorio acquisito nella precedente fase processuale;
- al nome della normativa ritenuta applicabile senza sussunzione alcuna della fattispecie concreta al precetto generale;
sicuramente incorre nel vizio di omessa o di apparente motivazione con conseguente nullità della sentenza.
E’ evidente, infatti, che motivazioni di tal fatta svuotano di contenuto la funzione dell’appello che, quale revisio prioris istantiae, è finalizzato ad esaminare, in modo specifico e adeguato alla sua funzione, le censure proposte dalle parti alla sentenza di primo grado, così da consentire – ai fini del giudizio di legittimità – un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento adottato (cfr., Cass. 18/04/2017 n. 9745; Cass. 26/06/2017 n. 15884; Cass. 21/09/2017, n. 22022; Cass., 25/10/2018, n. 27112; Cass., 05/10/2018 n. 24452; Cass., 07/04/2017 n. 9105).