Avv. Leonardo Maria Galieni
Analisi normativa in relazione al recente approdo giurisprudenziale. E’ forse utopico affermare che si è giunti ad una giurisprudenza garantista?
Il presente contributo si prefigge l’obiettivo di delineare, senza pretese di esaustività, i tratti e le questioni che si sviluppano intorno alla tematica della deducibilità delle spese di sponsorizzazione; ancor più, in ragione delle varie e molteplici contestazioni mosse sul punto dall’Amministrazione finanziaria nei riguardi dei contribuenti.
Nel delineare l’argomento in esame, si intende partire dal seguente interrogativo: “Posto che, al ricorrere di determinati requisiti di Legge, le spese di sponsorizzazione sono equiparabili alle spese di pubblicità, ciò può ritenersi bastevole per la loro integrale deducibilità?
Ebbene, per cercare di darne una risposta, non si può che andare per step, così da pervenire a quella che possa essere la soluzione interpretativa più condivisibile.
L’art. 90, c. 8, della L. n. 289/2002: presunzione legale assoluta sulla natura pubblicitaria delle spese di sponsorship e quindi sull’integrale deducibilità. Quali requisiti ha previsto il legislatore?
Volendo ora addentrarci nel cuore della questione, ritengo che assuma basilare importanza la disamina della normativa ivi richiamata; e ciò per due ordini di ragioni:
- in primis, poiché si è dinanzi ad una questione che, prima facie, riveste una valenza strettamente giuridica;
- in secundis, perché una interpretazione discrezionale della norma, come lo è quella sovente offerta dall’Ufficio, postula una serie di valutazioni che tradiscono la ratio ad essa impressa dal legislatore.
Ed andiamo ora ad analizzare la succitata disposizione di legge
L’art. 90, c. 8, della L. n. 289/2002, come noto, stabilisce una presunzione di legge a favore di coloro che sopportino costi e/o spese di sponsorship[1]; ma si badi bene che non si tratta di una presunzione legale qualsiasi.
Invero, premettendo che in diritto opera la netta distinzione tra presunzioni legali assolute (che non ammettono prova contraria) e presunzioni legali relative (che ammettono prova contraria), quella in esame rientra proprio nel novero delle presunzioni legali assolute, con tutte le conseguenze di legge[2].
E’ doveroso ricordare che il legislatore, con la suddetta norma, ha voluto salvaguardare taluni soggetti giuridici ritenuti meritori, tra cui le A.S.D.
Ma in quale modo?
Ha per l’appunto stabilito che le spese e/o costi di sponsorizzazione sostenuti a tal fine assumono – per presunzione legale assoluta – natura di pubblicità e, come tali, sono integralmente deducibili in deroga ai criteri di cui all’art. 108, c. 2, del TUIR, che invece possono essere applicati soltanto per le spese di rappresentanza.
E dunque, come può evincersi dal tenore letterale, gli unici requisiti necessari per qualificare tali esborsi alla stregua di spese di pubblicità ex art. 108, c. 1, del TUIR sono:
- che il soggetto sponsorizzato sia, per quanto interessa, una compagine sportiva dilettantistica;
- il rispetto del plafond di € 200.000,00;
- la finalità promozionale della sponsorizzazione;
- la controprestazione da parte dello sponsor,
e null’altro di più!!
Peraltro, anche la stessa Prassi dell’A.F. ha preso atto che l’unica lettura interpretativa cui si presta tale norma non possa che essere quella sin qui tracciata.
Invero, dopo aver affermato che la circ. n. 21/E/2003 ha riconosciuto in favore del soggetto erogante-sponsor la presunzione assoluta di spese di pubblicità e, di rimando, l’integrale deducibilità, ha poi specificato che non solo la previsione in esame «non introduce un limite massimo all’integrale deducibilità dal reddito d’impresa…» ma – si badi bene- che soltanto nella circostanza in cui «il soggetto erogante versi alle società o associazioni sportive dilettantistiche un corrispettivo di ammontare superiore al limite annuo complessivo di 200.000 euro, l’eccedenza sarà eventualmente deducibile in capo al medesimo erogante secondo le regole ordinarie previste dal TUIR» (cfr. Ade, Ris. n. 57/E del 23.06.2010).
Dinanzi a tale interpretazione, miglior riconoscimento non potrebbe forse auspicarsi; se non fosse che poi, quelle linee-guida, prendendo a prestito il gergo medico, dettate a livello centrale talvolta vengono disattese.
Invero, corre l’obbligo segnalare come, nella realtà dei fatti, si richieda la dimostrazione di ulteriori elementi e/o condizioni che non sono affatto previsti dalla normativa in esame; il tutto, traducendosi in una vera e propria probatio diabolica a carico del contribuente che, come tale, risulta difficile da assolvere.
Difatti, tenendo conto del particolare campo in cui tale norma è destinata ad operare, sembra che il legislatore abbia voluto tessere una disciplina speciale che preclude all’A.F. di muovere censure che invece si attagliano solo alle casistiche soggette alla disciplina ordinaria: prima tra tutte quella che ricade nella verifica degli elementi di cui all’art. 109 TUIR.
A ragion veduta, basti fissare una volta per tutte che quella serie di valutazioni e/o elementi pretesi dai verificatori, invece sono già inclusi nella natura “pubblicitaria” assegnata ex lege a tali spese che, in ogni caso, sono da ritenersi congrue nei limiti del plafond stabilito per € 200.000,00.
Distinzione giuridico-tributaria tra spese di spese di pubblicità e di rappresentanza: art. 108, c, 1 del TUIR vs art. 108, c. 2, del TUIR.
Proseguendo con la disamina del thema, andiamo ad individuare quei tratti distintivi che connotano le spese di pubblicità; e per far ciò si necessita un confronto con l’altra categoria di spese che, lungi dal costituirne l’alter ego, presenta caratteristiche ben distinte, ovverosia quelle di rappresentanza.
Orbene, premettendo come le contestazioni mosse dal Fisco sulle spese di sponsorizzazione sembrano voler dimenticare tale distinzione che non permette di richiedere per l’una requisiti che la legge prevede solo per l’altra, è bene partire da una valutazione giuridica.
Ed in tale prospettiva, sovvengono i dettami di cui all’art. 108, c. 1 e c. 2 del TUIR che, in buona parte, contengono la regolamentazione fiscale delle spese di pubblicità e di rappresentanza, per la cui regolamentazione specifica si rinvia in nota[3].
Ad onor del vero, giova rammentare che la relativa stesura è frutto di un importante intervento normativo che, specularmente a quanto avvenuto sul piano contabile, ha inciso sulla regolamentazione di tali spese.
Difatti, se a livello contabile è stata eliminata la possibilità di capitalizzare tali voci[4], parimenti sul piano fiscale è stata introdotta una significativa novità: a partire dal periodo d’imposta 2016 non è più consentito dedurre tali spese nel periodo massimo di 5 esercizi[5].
Invero, con l’avvento dell’art. 13-bis del D.L. n. 244 del 2016 (c.d. Decreto “Mille proroghe”), l’art. 108 del TUIR ha assunto una nuova veste giuridica con riguardo alla regolamentazione delle spese pubblicitarie. In base a quanto previsto dal comma 1 del citato articolo, esse sono deducibili sulla scorta delle spese riferite a più esercizi e quindi sino a concorrenza della quota imputabile a ciascun esercizio.
Orbene, volendo trasporre detta regolamentazione sul piano concettuale, possiamo notare che se le spese di pubblicità sono contraddistinte dal fatto che:
- postulano un rapporto sinallagmatico e, quindi, rinviano ad un contratto a prestazioni corrispettive tra le parti negoziali;
- prevedono una specifica causa (rectius ragione economico-sociale nell’accezione strettamente privatistica nota agli operatori del diritto) che riposa nell’obbligo della controparte di portare a conoscenza dei – potenziali – consumatori il prodotto offerto dall’impresa, al fine di stimolarne la domanda sul mercato;
- pattuiscono la corresponsione di una somma a titolo di controprestazione a favore della controparte contrattuale,
le spese di rappresentanza, in antitesi, devono rispettare tre caratteristiche, vale a dire:
- la gratuità;
- la congruità;
- l’inerenza.
Balza dunque all’occhio come elemento essenziale che distingue le seconde dalle prime è anzitutto quello della gratuità, ovvero la mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, la cui sintesi riposa nell’accezione “do ut des”.
Di lì, si può assumere come senza gratuità non possa esserci una spesa di rappresentanza.
Quanto al requisito dell’inerenza, questa può ritenersi tale nella misura in cui sia documentata e quindi comprovabile a fronte di contestazioni, prim’ancora di potersi riscontrare un’imprescindibile correlazione con l’attività professionale o d’impresa.
Ad ogni modo, anche la Prassi dell’A.F., come d’altronde la più autorevole dottrina[6], si è occupata di tale bipartizione, esprimendo la propria chiave di lettura.
E se di ciò vi è traccia negli anni risalenti[7], quasi a dire in tempi non sospetti ne ha poi sviluppato una panoramica riepilogativa.
L’occasione si è presentata con la risposta all’istanza di interpello n. 22, del 01/02/2019 ove, fornendo chiarimenti sulla disciplina fiscale relativa alle spese di “ospitalità” sostenute dall’impresa per viaggi, vitto e alloggio di determinate categorie di soggetti, si è soffermata, altresì, sul distinguo di cui ci stiamo occupando[8].
La posizione della giurisprudenza in ordine alla deducibilità delle spese di sponsorizzazione. Stiamo forse inseguendo una chimera nel sostenere di essere giunti ad un orientamento garantista che tutela il contribuente rispetto a tali contestazioni formulate da parte dell’A.F.?
Dopo questo breve, ma necessario excursus concettuale, si intende ora passare in rassegna il panorama giurisprudenziale che si è recentemente sviluppato tanto in sede di legittimità che di merito.
Al tal proposito, si potrà notare come anche innanzi ad una fattispecie supportata da una presunzione legale assoluta, non vi sia un’univocità di vedute da parte dei Giudici, tanto è vero che nell’ultimo periodo si sono susseguite pronunce, di legittimità che di merito, diametralmente confliggenti poiché esprimono una diversa interpretazione dell’art. 90 in esame e, di conseguenza, della sua portata.
Ed andiamo a vedere nel dettaglio.
Negli ultimi anni, è dato registrarsi un orientamento della Suprema Corte sensibile alle argomentazioni strettamente giuridiche sollevate dalla difesa dei contribuenti.
Invero, sposando la tesi della vigenza di una presunzione legale assolta e della sua indiscutibile portata, con ciò ha inesorabilmente precluso all’A.F. di sollevare quella mole di valutazioni e contestazioni che fuoriescono dal perimetro applicativo della norma in quanto “ultronee”; prima fra tutte quella concernente la presunta mancanza del requisito dell’inerenza[9].
A titolo esemplificativo, è di particolare interesse la pronuncia della Corte di Cassazione per cui «In ordine a quest’ultimo profilo deve infatti ribadirsi che quella sancita dalla L. n. 289 del 2002, art. 90, c. 8, è una “presunzione assoluta” oltre che della natura di “spesa pubblicitaria”, altresì di inerenza della spesa stessa fino alla soglia, normativamente prefissata, dell’importo di Euro 200.000, trattandosi nel caso di specie di esborsi che sono pacificamente ben al di sotto di tale limite» (cfr. Cass., Sez. VI, – 5, Ord. n. 8981 del 06/04/2017).
Ma ancor più emblematica è una recente statuizione della giurisprudenza di legittimità del luglio 2020 a mente della quale «Bisogna ricordare che il testo normativo de quo dispone che “Il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonchè di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 Euro, spesa di pubblicità , volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario, ai sensi del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 74, comma 2″. Come già precisato da questa Corte (Sez. 5. n. 5720/2016; Sez. 65 nn. 8981-14232-14235/2017), tale norma agevolativa ha introdotto una ” presunzione legale assoluta” circa la natura pubblicitaria, non di rappresentanza, di dette spese di sponsorizzazione , peraltro ponendo precise condizioni per la sua applicabilità e precisamente che: a) il soggetto sponsorizzato sia una compagine sportiva dilettantistica; b) sia rispettato il limite quantitativo di spesa fissato dalla legge; c) la sponsorizzazione miri a promuovere l’immagine ed i prodotti dello sponsor; d) il soggetto sponsorizzato abbia effettivamente posto in essere una specifica attività promozionale (es. apposizione del marchio sulle divise, esibizione di striscioni e/o tabelloni sul campo da gioco, etc.). Data l’assolutezza della presunzione deve considerarsi irrilevante la considerazione da parte della CTR della “antieconomicità” della spesa de qua, in ragione della sproporzione tra l’entità della stessa rispetto al fatturato/utile di esercizio della società contribuente ovvero della “inidoneità” della spesa stessa. Infatti tale presunzione legale riguarda sia la “natura” del costo, quale spesa pubblicitaria, sia l’inerenza del costo stesso sino alla soglia, normativamente fissata, dell’importo di Euro 200.000, appunto perchè quella in esame è una presunzione legale “assoluta”, la cui ratio evidente non riguarda la determinazione del reddito di impresa ovvero la base imponibile dell’IRAP, ma il sostegno finanziario dei privati alle attività sportive dilettantistiche.
In altri termini l’interpretazione teleologica e sostanziale della speciale norma in esame induce a ritenere che essa ha in via primaria finalità sociali extrafiscali, che normativamente sancisce come prevalenti sulle finalità fiscali» (cfr. Cass., Sez. V, Ord. n. 15179 del 16/07/2020).
Sin qui sembrerebbe essersi consacrato un orientamento “garantista” nei riguardi del contribuente; senonché è di pochi mesi or sono una pronuncia della Suprema Corte[10] che, pur riconoscendo come la norma di favor operi a condizione che siano integrate le succitate condizioni di legge, contiene un passaggio alquanto criptico e foriero di un’attenta riflessione.
Difatti, evocando quel concetto di “effettività” della prestazione (di indubbio riflesso penal-tributario se si guarda al campo delle fatture per operazioni inesistenti), tale pronuncia pare ricondursi a quella che è una tendenza sempre più ravvisabile nelle pronunce dei Giudici tributari, vale a dire: l’accenno ad una presunta inesistenza-fittizietà della sponsorship ancorché nell’avviso di accertamento non ve ne sia traccia.
Così opinando, si rischia di snaturare quella che è la causa petendi cristallizzata in seno ad ogni impositivo, la quale non può essere oltrepassata neppure dall’organo giudicante: non bisogna dimenticare difatti che nel processo tributario, stante il rinvio di cui all’art. 1, c. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 alle disposizioni processual-civilistiche, si applica il principio cardine della “corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato” consacrato all’art. 112 c.p.c.
Sulla scia garantista poc’anzi illustrata non può non rilevarsi come si sia parimenti allineata anche la più autorevole e recente giurisprudenza di seconde cure[11].
Invero, pronunciandosi sulla norma de qua, e richiamando la linea interpretativa espressa in sede di legittimità sulla vigenza della presunzione legale assoluta in esame, ha dunque confermato come essa inglobi quella sequela di elementi, valutazioni che l’A.F. pretende nei riguardi dello sponsor dell’A.S.D.
Non manca però di segnalare che vi siano anche pronunce che si siano distaccate da questo orientamento “garantista”.
Da ultimo, vi è la sentenza della C.T.R. delle Marche che, facendo leva anche su talune pronunce di legittimità riguardanti la tematica dell’inerenza dei costi e non quindi strettamente l’ambito delle spese di sponsorship[12], ha avallato la pretesa fiscale dell’Ufficio.
Volendo dunque provare a “tirare le fila” di quanto sin qui illustrato ed esposto, si può prendere atto come una significativa parte della più autorevole giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, abbia comunque accordato al contribuente quella che può definirsi come “una tutela garantista”; il tutto, si tenga ben a mente, sotto la condicio sine qua non che il medesimo dimostrare quel “poker d’assi” altro non è dato che dai quattro requisiti previsti dal richiamato art. 90 sul piano strettamente normativo.
Ad ogni modo, sebbene una lettura della norma in chiave strettamente giuridica dovrebbe, in linea teorica, porre al riparo il contribuente da ogni conseguenza legata a siffatte contestazioni, è doveroso tenere a mente come gli Uffici provinciali siano di tutt’altro avviso.
Per tale ragione, in ottica difensiva, il contribuente, pur contestando con forza come simili valutazioni siano del tutto avulse dal perimetro della norma, che giammai richiede alcunché in tal senso, è bene che non sia impreparato e pronto comunque a contestarne efficacemente gli assunti avversari.
Ma in che termini?
A tal fine, può risultare senz’altro utile la dimostrazione per tabulas (e quindi a mezzo del bilancio di esercizio, dichiarazioni fiscali, prospetti con trend del fatturato) del fatto che le spese e /o costi di sponsorship sostenute abbiano apportato un quid pluris all’attività svolta, riscontrabile sotto forma di ampiamento della clientela oppure in ragione di un progressivo incremento di quel ritorno commerciale che è comunque atteso e non di certa realizzazione.
A ragion veduta, proprio in virtù di quella tendenza che pare riscontrarsi in talune delle pronunce giurisprudenziali richiamate, ed inclini ad assecondare tali letture interpretative, l’attività del difensore tributario, a parere di chi scrive, non può dunque prescindere da un’istruttoria capillare con cui si possa dimostrare più di quanto la normativa stessa invece prevede.
Avv. Leonardo Maria Galieni – junior lawyer, contenzioso tributario.
[1] L’art. 90, c. 8, della L. n. 289/2002 recita testualmente che: «Il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 euro, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario, ai sensi dell’articolo 74, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917».
[2] Volgendo un rapido sguardo al campo delle presunzioni nel diritto tributario sostanziale, classico esempio è dato dall’art. 5 del TUIR che le contiene entrambe rispettivamente ai commi I e II. Infatti, se al I comma è inserita una presunzione legale assoluta, che non può essere vinta in alcun modo, per cui i redditi prodotti dalle società di persone (società semplici, in nome collettivo ed accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato) sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla percezione e proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, al II comma, invece, viene inserita una presunzione legale relativa poiché le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate ai valori dei conferimenti, salvo che non risulti diversamente da atto pubblico o scrittura privata autenticata.
[3] L’art. 108 del Tuir stabilisce che: “1. Le spese relative a più esercizi sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio. 2. Le spese di rappresentanza sono deducibili nel periodo di imposta di sostenimento rispondenti ai requisiti di inerenza stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse. Le spese del periodo precedente sono commisurate all’ammontare dei ricavi e proventi della gestione caratteristica dell’impresa risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativa allo stesso periodo in misura pari: a) all’1,5 per cento dei ricavi e altri proventi fino a euro 10 milioni; b) allo 0,6 per cento dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 10 milioni e fino a 50 milioni; c) allo 0,4 per cento dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 50 milioni. Sono comunque deducibili le spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore a euro 50”.
[4] Il nuovo OIC 29 ha escluso la possibilità di “capitalizzare” tali costi, eccetto l’ipotesi in cui sussistano i requisiti per inserirli nella voce “costi di impianto e ampliamento”. Per capitalizzazione dei costi si intende: costi sostenuti da un’impresa nel corso di un esercizio economico che non vengono considerati all’interno del conto economico in quanto non sono di competenza esclusiva dell’esercizio, avendo carattere pluriennale. Tali costi vengono, quindi, “capitalizzati”, e cioè portati all’attivo dello stato patrimoniale del bilancio.
[5] Il precedente dettato normativo ex art. 108, c. 2, TUIR prevedeva che: “Le spese di pubblicità e di propaganda sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi”.
[6] Sull’argomento, in dottrina, si veda: Ferranti, Le spese per le sponsorizzazioni tra pubblicità e rappresentanza, in Corr. Trib. n. 29/2013, pag. 2294 segg.).
[7] In tal senso, si veda: M.E.F., Ris. n. 148 del 17/09/1998; Ade, Circ. n. 34/E del 13/07/2009.
[8] A tal riguardo l’A.F. ha affermato che: “La questione sottoposta all’esame della scrivente riguarda la qualificazione o meno come spese di pubblicità delle spese di ospitalità sostenute a favore di alcune categorie di soggetti, in occasione dello svolgimento di un festival di cinema da parte dell’istante. La disciplina delle spese di pubblicità è contenuta nell’articolo 108, comma 1, del TUIR; a seguito delle modifiche introdotte dall’articolo 13-bis, comma 2, lettera c), numero 1), del decreto legge 30 dicembre 2016, n. 244, convertito, con modificazioni, dalla Legge 27 febbraio 2017, n. 19, la possibilità di capitalizzare tali costi e di dedurre i medesimi in un periodo massimo di cinque esercizi è stata sostituita dalla regola di deducibilità integrale nell’esercizio di sostenimento. In merito alla nozione generale di spese di pubblicità, deve aversi riguardo ai chiarimenti forniti nel paragrafo 3.1 della circolare n. 34/E del 13 luglio 2009, in linea con la risoluzione del Ministero delle Finanze n. 148 del 17 settembre 1998. I citati documenti di prassi hanno individuato l’elemento caratterizzante di tali costi nella circostanza che il loro sostenimento è frutto di un contratto a prestazioni corrispettive, la cui causa risiede nell’obbligo della controparte di portare a conoscenza della generalità dei consumatori – a fronte della percezione di un corrispettivo – l’offerta del prodotto dell’impresa, al fine di stimolarne la domanda sul mercato. Ai sensi dell’articolo 1, comma 1, del D.M. 19 novembre 2008 (in breve “il Decreto”), le spese di rappresentanza, invece, sono quelle sostenute per erogazioni a titolo gratuito di beni o servizi, effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni e il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza in funzione dell’obiettivo di generare, anche potenzialmente, benefici economici per l’impresa ovvero sia coerente con pratiche commerciali di settore. Sotto il profilo fiscale, le predette spese sono deducibili entro un limite determinato in misura percentuale in relazione all’ammontare dei ricavi della gestione ordinaria. Inoltre, dal combinato disposto del citato comma 1 e del comma 5 del predetto articolo 1 del Decreto, si ricava che le spese comunemente definite di ospitalità, caratterizzate dal sostenimento, da parte dell’impresa, di costi per viaggi, vitto e alloggio di determinate categorie di soggetti, sono qualificate come spese di rappresentanza, tranne nell’ipotesi in cui siano sostenute per ospitare clienti, attuali o potenziali, in occasioni specifiche, all’interno di contesti commerciali ben definiti, quali fiere, mostre, esposizioni, eventi similari e visite aziendali. In tale evenienza, secondo quanto illustrato nel paragrafo 6 della citata circolare n. 34/E del 2009, le spese in esame assumono una rilevanza diversa rispetto alle normali spese di rappresentanza, in quanto esse sono strettamente correlate alla produzione dei ricavi tipici dell’impresa; pertanto, le medesime non soggiacciono ai limiti di deducibilità propri delle spese di rappresentanza, ma sono integralmente deducibili, ferma restando l’osservanza dell’articolo 109 del TUIR” (cfr. risp. n. 22 del giorno 01/02/2019).
[9] Approdo a cui è pervenuta la Suprema Corte con una serie di pronunce, ed andando per ordine temporale: (ex multis cfr. Cass. n. 5720/2016; Cass. n. 21578/2017, Cass. n. 21333/2017, Cass. n. 8981/2017, Cass. n. 7202/2017, Cass. n. 16113/2018, Cass. n. 1420/2018).
[10] Con tale pronuncia, si afferma che: «Pertanto, poiché la presunzione legale di inerenza/deducibilità della spesa può operare solo in presenza di tutte le sopra indicate condizioni, correttamente la CTR ne ha operato la verifica in concreto – senza che ciò possa considerarsi, come erroneamente sostiene la ricorrente, un’estensione del thema decidendum – pervenendo alla conclusione, a seguito di un accertamento in fatto non contestato, che la società contribuente, che ne era onerata, non aveva fornito la prova dell’effettuazione da parte dell’associazione sponsorizzata dell’attività promozionale contrattualmente prevista, al riguardo affermando che nel caso di specie “non esiste specifica documentazione da cui risulti l’effettuazione degli interventi di pubblicità fonata”, non risultando neppure “le concrete modalità di sostegno pubblicizzato al settore giovanile (tali essendo i contenuti dell’accordo di sponsorizzazione)” e precisando che “la dimostrazione dell’effettività delle prestazioni pattuite è ancor più necessaria in presenza di un contratto generico come quello di cui si tratta”. Altrettanto correttamente, inoltre, la CTR ha escluso ogni valutazione dei profili di congruità ed inerenza della spesa» (cfr. Cass., Sez. VI – 5, Ord. n. 20811 del 30-09-2020).
[11] In tema di spese di sponsorizzazione, la più recente giurisprudenza di merito ha ribadito che «…l’inerenza qualitativa della spesa sostenuta non è in discussione, in quanto la sponsorizzazione ha indubbio valore promozionale essendo in astratto idonea ad incrementare il volume di affari» (cfr. Comm. trib. reg. Emilia-Romagna Bologna, Sez. III, Sent. n. 897 del 07/05/2019; ed ancora si è statuito che «Non è quindi possibile sanzionare in sede tributaria una condotta dell’imprenditore/contribuente che può essere giudicata finanziariamente avventata o eccessivamente generosa o addirittura venata di prodigalità, ma resta comunque in relazione logica ed economica con l’attività esercitata. A queste riflessioni deve aggiungersi, come rilevato anche dall’appellante, che la tendenza della giurisprudenza di legittimità sembra muovere nella direzione di garantire la piena libertà del contribuente di destinare somme alle società sportive dilettantistiche senza limiti di inerenza che non siano specificamente indicati e descritti nell’art. 90 della L. n. 289 del 2002» (cfr. Comm. trib. reg. Umbria Perugia, Sez. III, Sent. n. 19 del 14/01/2020).
[12] In tale pronuncia si è ritenuto che «Tale valutazione dell’Ufficio, già espressa, ripetesi, nell’impugnato avviso di accertamento, rende subito evidente l’inconferenza e l’erroneità della motivazione contenuta nella sentenza della CTP, che ha ricondotto il profilo di inerenza dei costi pubblicitari ad una libera ed insindacabile scelta dell’imprenditore, dimenticando che il giudizio dell’Ufficio trae origine dal doveroso e legittimo riscontro al comportamento del debitore, che quei costi ha inteso dedurre dal proprio reddito. Ciò premesso va subito chiarito che l’invocata (dalla difesa dell’appellato) presunzione legale di cui all’art. 90, comma 8 della L. n. 289 del 2002, nulla ha a che vedere con il principio di inerenza, sancito dal testo unico delle imposte sui redditi all’articolo 109, comma 5, del D.P.R. n. 917 del 1986, che, ripetesi, afferma la deducibilità delle spese sostenute dall’imprenditore purchè inerenti all’attività esercitata e, quindi, idonee a produrre, anche potenzialmente, ricavi aziendali. Giova rammentare che l’articolo 90, comma 8, L. n. 289 del 2002 è intervenuto nel limitato contesto di incertezza sull’imputazione delle spese di sponsorizzazione sportiva – se, cioè, dovessero essere considerate spese pubblicitarie (a deducibilità piena) o spese di rappresentanza (a deducibilità limitata) – stabilendo una presunzione assoluta in favore della prima tesi, nei limiti di sponsorizzazioni di valore non superiore ai 200.000 Euro. Tale finalità della suddetta norma – tesa esclusivamente a definire la natura della spesa – è stata, anche di recente, avallata dalla Suprema Corte, con Ordinanze n. 16113 del 19 giugno 2018 e n. 26590 del22 ottobre 2018, alla cui lettura si rinvia. Ben diverso e distinto è, invece, il requisito dell’inerenza, prescritto dall’articolo 109, comma 5, del D.P.R. n. 917 del 1986, ai fini della deducibilità di un costo aziendale, la cui ricorrenza va necessariamente verificata dall’Ufficio accertatore, come legittimamente è avvenuto; infatti detta norma stabilisce che “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”… Ed ancora: ” … in tema di imposte dirette, l’Amministrazione finanziaria, nel negare l’inerenza di un costo per mancanza, insufficienza od inadeguatezza degli elementi dedotti dal contribuente ovvero a fronte di circostanze di fatto tali da inficiarne la validità o la rilevanza, può contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa ed in tal caso è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali … “. (così Ordinanza n. 18391 del 9 luglio 2019).Quanto, poi, alla ripartizione dell’onere probatorio, sempre la Suprema Corte ha chiarito che… e che ” … Sarebbe stato più esattamente onere della parte, dimostrare non solo la congruità dei costi sostenuti a fini di sponsorizzazione in rapporto all’attività caratteristica e al volume d’affari che ne costituiva il risultato, ma pure la loro idoneità ad ampliare le prospettive di crescita dell’impresa nell’ambito territoriale beneficiato dalle attività di sponsorizzazione, in questa ottica non essendo sufficiente che la spesa fosse debitamente documentata, ma occorrendo altresì che ne fosse comprovata l’inerenza sotto lo specifico profilo del concreto vantaggio che nello specifico contesto territoriale ne avrebbero potuto ritrarre le attività della contribuente in termini di allargamento della clientela e di incremento dei ricavi …. ” (così sent. n. 1 091412015). In conclusione dall’ampio quadro d’insieme dei principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità emerge che la disposizione normativa in argomento (art. 109, comma 5, del D.P.R. n. 917 del 1986) è, intanto, un principio cardine del nostro diritto tributario e che essa non attribuisce affatto all’imprenditore una deducibilità senza limiti delle spese e dei costi sostenuti, ma ne consente la deduzione purché essi siano inerenti all’attività economica esercitata e, quindi, idonei a produrre, anche indirettamente, reddito imponibile; la sussistenza di tale correlazione è sindacabile da parte dell’Ufficio accertatore e la prova di essa è a carico del contribuente, che quei costi ha inteso dedurre» (cfr. Comm. trib. reg. Marche Ancona, Sez. II, Sent. n. 370 del 10/07/2020).