Discriminazioni e lavoro: il mancato rinnovo del contratto a termine per la lavoratrice gestante (Cass. n. 5476/2021)

Avv. Ilaria Perri


Complesse e articolate si presentano le vicende relative al principio di uguaglianza di genere nel rapporto di lavoro, purtroppo connotate, tutt’oggi, da impronte retrograde.

A fronte di una indiscussa evoluzione normativa a livello nazionale e comunitaria, infatti, l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, così come le condizioni di lavoro, costituiscono ancora – nella pratica – aree ove il fenomeno discriminatorio permane considerevolmente.

In materia, di ragguardevole apprezzamento risulta il tema della tutela della maternità.

Il nostro ordinamento ha da sempre tutelato l’assolvimento dei compiti di maternità e cura dei figli, ritenendo essenziale la funzione familiare svolta dalla donna, che assurge a diritto costituzionale disciplinato dall’art. 37, nel quale si rinviene una tutela differenziata, da un lato, ed una parità di trattamento in virtù del più generale principio di uguaglianza fra i due sessi, dall’altro.

Ed è proprio la parità di trattamento, intesa nella sua più lata accezione, ad essere stata oggetto di annose dispute giurisprudenziali e legislative: la discriminazione collegata alla gravidanza e alla maternità costituisce, infatti, una forma particolare di discriminazione di genere.

Riferimenti normativi

La tutela antidiscriminatoria trova ampia trattazione nella normativa comunitaria.

Più nello specifico, l’art. 157 del TFUE impone ad ogni Stato membro l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore; sancisce, inoltre, una attiva partecipazione delle Istituzioni europee nell’adozione di misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.

Ed ancora, le Direttive 2000/43/CE (art. 3), 2000/78/CE (art.3) e 2006/54/CE (art. 14), nel descrivere le aree cui esse si applicano, fanno riferimento alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo. Al quadro di tutele si aggiunge la direttiva 92/85/CE concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, nonché la direttiva 2010/18/UE che attua l’accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale.

Nel recepire la normativa comunitaria, il legislatore nazionale ha riprodotto pedissequamente quanto affermato dalle direttive, ricalcando l’iter comunitario e recependone gli approdi.

Significativa opera di coordinamento della disciplina antidiscriminatoria si è raggiunta con il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198), nel quale si è operato un intervento di semplificazione e razionalizzazione degli organismi che operano in materia di pari opportunità nel lavoro, statuendo un ampio raggio di tutele avverso discriminazioni dirette, indirette e molestie.

Tutela concessa anche nei casi di c.d. vittimizzazione, ossia la presenza di comportamenti pregiudizievoli posti in essere nei confronti della persona lesa da una discriminazione, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

Da un punto di vista procedimentale, per il lavoratore che agisce in giudizio contro i comportamenti discriminatori sul luogo di lavoro, trovano applicazione gli artt. 37, co. 4 e 38 d.lgs. 198/2006 in seno ai quali si contemplano due procedimenti semplificati e d’urgenza. Da ultimo, il d.lgs. 150/2011 ha ricondotto il procedimento contro le discriminazioni al modello del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss. c.p.c.

 

Il Caso

L’argomento trattato suscita particolare interesse anche in virtù di una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la quale, con Sent. Sez. L n. 5476/2021, ha ritenuto discriminatorio il mancato rinnovo del contratto a termine di una lavoratrice in stato di gravidanza.

 Fatto

La Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, ha respinto le domande proposte dalla ricorrente relative alla mancata proroga del contratto di lavoro a tempo determinato, invece concessa a tutti i suoi colleghi che si trovavano nella stessa situazione. Nello specifico, la Corte romana ha ritenuto infondata la pretesa avanzata, considerando non assolto l’onere della prova, atteso che alcun specifico elemento di fatto idoneo era stato riportato a prova della lamentata discriminazione.
Avverso la decisione della Corte d’Appello, dunque, la lavoratrice ha promosso ricorso per Cassazione.

La decisione degli Ermellini

I giudici di legittimità, facendo leva sui principi sopra enucleati ed in virtù di una analitica trattazione normativa e giurisprudenziale, hanno accolto il ricorso della lavoratrice, attribuendo debito valore a quel principio di pari opportunità e di trattamento, così tanto decantato e troppo spesso mal attuato.

Nella decisione della Suprema Corte rileva, anzitutto, la circostanza secondo la quale, in presenza di situazioni analoghe, sia stato posto in essere un comportamento pregiudizievole a danno della lavoratrice, sol perché in stato di gravidanza.

Si legge testualmente il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza”.

Con riferimento all’asserito mancato assolvimento dell’onere della prova in seno al giudizio di primo e secondo grado, invece, occorre aver riguardo all’art. 40 del d.lgs. 5 aprile 2006 n. 198, nel quale si prevede che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione”.

Più nello specifico, con riferimento all’applicazione della suddetta statuizione, la Corte ha affermato chei criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 cod. civ. (finendosi altrimenti per porre a carico di chi agisce l’onere di una prova piena del fatto discriminatorio, ancorché raggiunta per via presuntiva), bensì quelli speciali, che non stabiliscono un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro e circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione (cfr. in tal senso, tra le più recenti, Cass. 2 gennaio 2020, n. 1; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543).

Pertanto, nel caso in esame, stante la previsione di cui all’art. 40 d.lgs. 198/2006, non era necessario che la ricorrente allegasse specifici elementi di fatto idonei a provare la lamentata discriminazione.

Era da ritenersi sufficiente la deduzione di circostanze minime essenziali presuntive, gravando – contrariamente da quanto asserito dalla Corte d’appello di Roma – l’onere della prova in capo al datore di lavoro, il quale doveva dimostrare le circostanze inequivoche che hanno determinato la decisione di non rinnovare il contratto alla donna.

 

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