Dott. Luca Procopio
CTR LAZIO n. 2398 del 30.07.2020
Il “raddoppio” del termine decadenziale di accertamento non opera se l’IRPEF non dichiarata dal contribuente nella dichiarazione dei redditi presentata a suo tempo è inferiore alla soglia di evasione richiesta ratione temporis per la consumazione del reato di dichiarazione infedele, ipotizzato nella denuncia di reato inoltrata alla competente Procura della Repubblica.
La CTR Lazio, nell’accogliere l’atto di appello proposto da un contribuente, ha dichiarato la nullità di un avviso di accertamento IRPEF che l’Agenzia delle entrate aveva emesso oltre il termine decadenziale “ordinario”, sulla base di una “denuncia di reato” che la Guardia di Finanza aveva inoltrato alla competente Procura della Repubblica ipotizzando il reato di dichiarazione infedele rispetto alla predetta imposta, previsto dell’art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000.
I giudici di seconde cure hanno rilevato che l’Ufficio impositore aveva fatto un uso pretestuoso, strumentale e, quindi, ingiustificabile del “raddoppio” dei termini di accertamento previsto, «In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74», dall’art. 43, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 nel testo applicabile sino ai periodi di imposta 2015, giacché la maggiore IRPEF accertata in capo al contribuente era inferiore alla soglia di “imposta evasa” richiesta ratione temporis dall’art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000 per la configurabilità del reato di dichiarazione infedele.
Nello specifico, sebbene l’art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000, nel testo applicabile con riferimento alle dichiarazioni infedeli presentate sino al 26.10.2019, richiedeva, tra le altre condizioni necessarie alla rilevanza penale di tali condotte, che l’IRPEF evasa fosse superiore ad euro 150.000, dall’avviso di accertamento impugnato emergeva che la maggiore imposta non dichiarata dal contribuente ammontava a poco più di 137.000.
Ragioni giuridiche della decisione
L’oggetto della controversia non riguarda il merito della pretesa tributaria, ma la sussistenza dei presupposti perché l’Ufficio potesse usufruire del raddoppio dei termini per l’accertamento.
Il reato contestato è quello di “dichiarazione infedele”, che ai sensi dell’articolo 4 del d. lgs. n. 74 del 2000 (nel testo in vigore ratione temporis) si realizza quando chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente:
a) L’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro 150.000,00;
b) L’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a euro 3 milioni.
Ciò posto, nel caso di specie non sussistono entrambi i presupposti per il reato di dichiarazione infedele, dal momento che l’imposta IRPEF evasa ammonta a soli euro 137.600, e dunque è inferiore ad euro 150.000.
Pertanto, il contribuente non ha commesso il reato di infedele dichiarazione come sanzionato dalla norma sopra citata, che dava luogo al raddoppio dei termini di accertamento. L’Amministrazione finanziaria, nella specie, ha dunque fatto un uso pretestuoso o strumentale della disposizione, al solo fine di fruire, ingiustificatamente, di un più ampio termine. (Cass. n. 24315/2018).