Avv. Francesca De Carlo
In una recente pronuncia1, la Cassazione, ha ritenuto integrato il reato di sostituzione di persona2 nell’ipotesi in cui il soggetto agente crei un account falso su Facebook utilizzando l’immagine di un altro soggetto, totalmente inconsapevole, al fine di comunicare con altri iscritti e di ledere la reputazione della vittima.
Nel caso de quo, la Corte di Appello di Messina, confermava la sentenza di primo grado che aveva condannato il Sig. Y.G.T. alla pena – condizionalmente sospesa – di 2 mesi e 15 giorni di reclusione, per i reati di cui agli artt., 595, comma 3 (diffamazione aggravata) e 494 c. p., ( sostituzione di persona), per aver offeso la reputazione di una donna a mezzo internet “creando falsi profili rappresentati da immagini caricaturali della stessa”.
L’imputato ricorreva in Cassazione la quale, dopo aver vagliato i motivi dallo stesso sollevati e dichiarato inammissibile il ricorso, sottolineava che il reato di sostituzione di persona si perfeziona nel momento in cui avviene “l’illegittima sostituzione della propria all’altrui persona”, vale a dire nel momento in cui la condotta del soggetto attivo è idonea a rappresentare un’identità digitale non corrispondente all’utilizzatore effettivo e reale.
La nozione di identità digitale3 viene intesa, da dottrina e giurisprudenza maggioritaria, sia come sinonimo di identità virtuale di rete, sia come l’insieme delle informazioni e delle risorse attribuite da un sistema informatico al suo utilizzatore.
Il fatto costitutivo del delitto, consiste nell’indurre taluno in errore, sostituendo la propria all’altrui persona o attribuendo a sé o ad altri un falso nome o un falso stato ovvero una qualità cui la legge attribuisce effetti giuridici in relazione al rapporto o alla situazione in cui tale qualità è attribuita falsamente.
Per tale motivo, la condotta idonea ad integrare l’elemento oggettivo del reato, è a forma vincolata.
Non rileva, ai fini dell’integrazione del reato, che sia stata adoperata un’immagine caricaturale della persona offesa, in quanto ciò che viene in evidenza, è l’illegittima sostituzione della persona.
Questo aspetto rappresenta il carattere peculiare della vicenda in esame in quanto aggiunge un altro tassello alla fattispecie in esame, la quale ricorre non solo quando si sostituisce illegittimamente la propria all’altrui persona ma anche quando si attribuisce ad altri un falso nome, dovendosi intendere per nome non solo quello di battesimo ma anche tutti i contrassegni di identità.
Tra questi, a parere della Corte, può senz’altro farsi rientrare l’immagine caricaturale di un soggetto.
Già nel 2016, la Suprema Corte si era pronunciata circa la configurabilità del delitto di diffamazione aggravata, nel caso di diffusione di un messaggio tramite la bacheca di Facebook e ciò in quanto “la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”4.
Nella sentenza in oggetto, conferma tale orientamento precisando che, nel caso di specie, “i messaggi offensivi erano stati divulgati tramite i falsi profili Facebook mediante pubblicazione di post visibili ai cosiddetti amici del profilo e non mediante invio di messaggi privati”.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, essendo ricompreso nel Titolo VII del Libro II del c.p., dedicato ai delitti contro la fede pubblica, il reato di sostituzione di persona, ha natura plurioffensiva, preordinato non solo alla tutela di interessi pubblici ma anche di quelli del soggetto privato5.
Oggetto della tutela penale è, dunque, l’interesse riguardante la pubblica fede in quanto “questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali; siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d’un determinato destinatario, il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome”6.
Si tratta, altresì, di un reato sussidiario rispetto ad ogni altro reato contro la fede pubblica e, tale sussidiarietà, secondo la Suprema Corte, si verifica solo quando con un unico fatto si vìolino più norme; mentre in caso di pluralità di fatti, si avrà concorso, materiale, di reati. Il reato si consuma con l’induzione in errore altrui e non è necessario che il beneficio al quale il soggetto attivo tende, si sia conseguito nella realtà perchè, trattandosi di reato a dolo specifico, è necessario che il soggetto lo abbia perseguito7.
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1 Cassazione, Sez. V Penale, 23 luglio 2020, n. 22049.
2 Articolo 494 c.p., “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno”.
3 Il D.P.C.M 24 ottobre 2014 la definisce all’art.1, lettera O, come “la rappresentazione informatica della corrispondenza biunivoca tra un utente e i suoi attributi identificativi, verificata attraverso l’insieme dei dati raccolti e registrati in forma digitale”.
4 Cass. Pen. Sez., V, n. 4873/2016.
5 Cass. Pen. Sez., V, n. 21574/2009.
6 Cass. Pen.. Sez., V, 23 aprile – 16 giugno 2014, n. 25774.
7 Antolisei F., Manuale di diritto penale, Volume II, 2016, il quale sottolinea che “dato il tenore della norma non è dubitabile che il delitto si consuma non appena l’induzione in errore sia avvenuta, senza che occorra il conseguimento del vantaggio o la verificazione di un danno”.