Cassazione 2020: la revocatoria è esperibile anche se l’immobile trasferito è ipotecato

Avv. Pino Cupito

Con una recentissima pronuncia (testo integrale riportato in calce) la Cassazione ritorna su una questione molto complessa ribadendo il proprio orientamento in materia di azione revocatoria su un bene immobile già gravato da eventuali iscrizioni ipotecarie.

La Corte chiarisce che il pregiudizio per il creditore – ovvero il requisito oggettivo dell’eventus damni – e quindi l’interesse di quest’ultimo ad agire in revocatoria per la declaratoria d’inefficacia dell’atto di disposizione posto in essere dal debitore, non può dirsi impedito e/o escluso dall’eventuale presenza di garanzie reali che insistono sul bene trasferito.

Ciò in quanto, le ragioni e le circostanze che dovrebbero escludere in concreto l’esperibilità di un’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. sono ben definite dalla lunga elaborazione giurisprudenziale della medesima Corte.

È infatti ormai pacificamente riconosciuto, nelle pronunce di legittimità, che l’impedimento l’impasse alla revocatoria del creditore può verificarsi soltanto in presenza di specifiche circostanze che parrebbero “giustificare” l’agire del debitore trasferente.

Ed invero, ripercorrendo brevemente gli approdi giurisprudenziali in materia, assume innanzitutto grande rilevanze la c.d. “natura di atto dovuto” della prestazione del debitore moroso.

In altri termini, l’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore moroso risulterebbe (“teoricamente”) compiuto in assenza di consapevolezza e volontarietà e questo sarebbe di per sé bastevole ad escludere il secondo elemento essenziale ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria, ovvero il requisito soggettivo della c.d. scientia damni del debitore agente.

In secondo luogo, la revocatoria ordinaria, a differenza di quella fallimentare, non persegue l’obiettivo di tutelare la par condicio creditorum, ragion per cui l’adempimento del debitore non determinerebbe alcuna disparità di trattamento.

Sotto altro profilo, l’esperibilità dell’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. sarebbe impedita anche in un’altra particolare ipotesi, ovvero quella dell’alienazione di un immobile posta in essere dal debitore al solo fine di procacciarsi il danaro necessario a pagare i propri creditori, sempre che:

  1. detta alienazione costituisca il mezzo necessario per giungere alla soddisfazione di questi ultimi;
  2. l’alienazione si ponga in rapporto di strumentalità con l’adempimento dell’obbligazione.

In tal caso, allorché il ricavato della vendita dell’immobile sia maggiore della cifra occorsa per il pagamento dei debiti esistenti, il creditore rimasto insoddisfatto potrà agire in revocatoria unicamente al fine di far dichiarare inefficaci nei propri confronti quegli atti che il debitore abbia posto in essere disponendo proprio del somma in eccedenza.

Orbene, al latere di tali doverose premesse, la Corte nella pronuncia in commento si sofferma sulla particolare eccezione proposta dal debitore raggiunto dall’azione revocatoria dei creditori.

Nello specifico, la tesi difensiva del ricorrente potrebbe essere sintetizzata come segue: l’esistenza di ipoteche gravanti sull’immobile oggetto di disposizione, renderebbe l’azione revocatoria del tutto inutile ed improponibile in quanto dette garanzie reali, impedirebbero in ogni caso al creditore-attore, in caso di vittoria della revocatoria e di successiva azione esecutiva sul bene revocato, di rivalersi sul ricavato della vendita e di soddisfare le proprie ragioni ove si consideri la preferenza formalmente iscritta a vantaggio del creditore ipotecario.

Ebbene, sul punto la Suprema Corte sostiene che l’ipoteca gravante sul bene venduto  (al momento della vendita da parte del debitore) ed oggetto di revocatoria da parte del creditore non esclude di per sé l’esistenza di un eventuale pregiudizio per il creditore medesimo, con l’ovvia conseguenza che detto atto di disposizione deve certamente ritenersi revocabile.

La sentenza in commento infatti uniformandosi all’indirizzo più volte ribadito, sostiene che:

“…in tema di azione revocatoria ordinaria, l’esistenza di una ipoteca sul bene oggetto dell’atto dispositivo, ancorchè di entità tale da assorbirne, se fatta valere, l’intero valore, non esclude la connotazione di quell’atto come “eventus damni” (presupposto per l’esercizio della azione pauliana), atteso che la valutazione tanto della idoneità dell’atto dispositivo a costituire un pregiudizio, quanto della possibile incidenza, sul valore del bene, della causa di prelazione connessa alla ipoteca, va compiuta con riferimento non al momento del compimento dell’atto, ma con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, per apprezzare l’eventualità del venir meno, o di un ridimensionamento, della garanzia ipotecaria…dunque occorre sempre, in proposito, un accertamento in fatto, da effettuare caso per caso (con giudizio prognostico proiettato verso il futuro e non esclusivamente al momento dell’atto).”.

L’anzidetto orientamento origina dall’assunto per il quale l’azione revocatoria tutela l’effettività della responsabilità patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.c. e quindi la declaratoria di inefficacia dell’atto dispositivo del debitore determina soltanto il possibile assoggettamento dell’immobile ceduto all’esecuzione forzata del creditore vittorioso nei confronti del terzo acquirente.

Pertanto, l’esito di tale azione esecutive, come tale eventuale e differita, non può dirsi compromesso, già al momento dell’accoglimento della revocatoria, semplicemente in quanto sul bene trasferito gravino iscrizioni ipotecarie.

Va da sé infatti che tali garanzie reali possono subire vicende modificative o estintive e per questo non si può escludere aprioristicamente ogni possibilità per il creditore di soddisfare il proprio credito, soprattutto quando tra l’atto revocato e l’esecuzione forzata del creditore revocante intercorra un lasso di temporale considerevolmente lungo.

E questo vale anche nelle ipotesi in cui il valore dell’iscrizione ipotecaria superi il valore venale e di mercato del bene sul quale insiste.

Testo della sentenza

Cassazione Civile, Sez. III, sentenza n. 11121 del 10.06.2020

Fatti di Causa

Il curatore del fallimento della società (OMISSIS) S.r.l. ha agito in giudizio nei confronti di L.P. e D.S.F. per ottenere la dichiarazione di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’atto con cui il L. (nei cui confronti la curatela vanta crediti risarcitori in relazione all’attività dallo stesso svolta quale unico socio ed amministratore della società fallita) aveva ceduto alla D.S. i suoi diritti di nuda proprietà, pari alla quota della metà, su un appartamento con autorimessa di pertinenza, riservato al venditore il diritto di abitazione.

La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Terni.

La Corte di Appello di Perugia, in riforma della decisione di primo grado, la ha invece accolta.

Ricorrono il L. e la D.S., sulla base di sei motivi.

Resiste con controricorso il curatore del fallimento della società (OMISSIS) S.r.l.

Il ricorso è stato inizialmente trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c., ma la Corte, con ordinanza interlocutoria in data 8 ottobre 2019, ha disposto la trattazione in pubblica udienza.

La curatela controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

Ragioni della Decisione

1.In via preliminare, va rigettata l’istanza di rinvio formulata del difensore dalla parte controricorrente, genericamente motivata in base ad altri impegni professionali.

L’istanza di rinvio dell’udienza di discussione della causa per grave impedimento del difensore, ai sensi dell’art. 115 disp. att. c.p.c., deve infatti fare espresso riferimento alla impossibilità (nella specie non adeguatamente indicata e comprovata) di sostituzione mediante delega conferita ad un collega, facoltà tale da rendere riconducibile all’esercizio professionale del sostituito l’attività processuale svolta dal sostituto, venendo altrimenti a prospettarsi soltanto un problema attinente all’organizzazione professionale del difensore, non rilevante ai fini del differimento dell’udienza (cfr. Cass., Sez. U, Ordinanza n. 4773 del 26/03/2012, Rv. 621382 – 01; con riferimento alla facoltà di sostituzione ora confermata dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 9, comma 2, cfr. anche, ex multis: Sez. 1, Sentenza n. 19583 del 27/08/2013, Rv. 627728 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22094 del 17/10/2014, Rv. 632913 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10546 del 03/05/2018, Rv. 648768 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 25783 del 15/10/2018, Rv. 650983 – 01).

2.Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la Corte di appello omesso di accertare che i beni oggetto dell’atto impugnato in revocatoria, quanto ai diritti di 1/2, erano di proprietà di L.P. e non invece della (OMISSIS) Srl, come erroneamente affermato dal giudice di secondo grado”.

Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata la (OMISSIS) S.r.l. è erroneamente indicata quale soggetto titolare del diritto ceduto solo nella prima pagina, mentre nella motivazione e nel dispositivo si fa sempre riferimento al L. o comunque ad una persona fisica.

La predetta erronea indicazione costituisce pertanto un mero errore materiale, che non ha alcuna incidenza sulla coerenza del percorso motivazionale della decisione e non ne impedisce la agevole comprensione.

D’altra parte, il fatto di cui la parte ricorrente lamenta l’omesso esame non risulta in realtà controverso (è pacifico che il titolare dei diritti per cui è causa sia il L., in proprio), il che esclude la stessa sussumibilità della censura nel parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

3.Con il secondo motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a quanto previsto dall’art. 2901 c.c., comma 1, n. 1 e comma 1, n. 2, per avere la Corte di appello ritenuto che il fallimento della (OMISSIS) Srl avesse subito un pregiudizio in conseguenza della stipula dell’atto di cessione dei diritti e per avere affermato la sussistenza del presupposto oggettivo della azione revocatoria, costituito dall’eventus damni”.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata è conforme, in diritto, all’indirizzo di questa Corte, secondo il quale “in tema di azione revocatoria ordinaria, l’esistenza di una ipoteca sul bene oggetto dell’atto dispositivo, ancorchè di entità tale da assorbirne, se fatta valere, l’intero valore, non esclude la connotazione di quell’atto come “eventus damni” (presupposto per l’esercizio della azione pauliana), atteso che la valutazione tanto della idoneità dell’atto dispositivo a costituire un pregiudizio, quanto della possibile incidenza, sul valore del bene, della causa di prelazione connessa alla ipoteca, va compiuta con riferimento non al momento del compimento dell’atto, ma con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, per apprezzare l’eventualità del venir meno, o di un ridimensionamento, della garanzia ipotecaria” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640191 – 01; nel medesimo senso, cfr.: Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 20671 del 08/08/2018, Rv. 650481 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25733 del 22/12/2015, Rv. 638077 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16793 del 13/08/2015, Rv. 636390 – 01; cfr. altresì, sempre in tal senso: Sez. 3, Ordinanza n. 30736 del 26/11/2019, Rv. 655974 – 01): dunque occorre sempre, in proposito, un accertamento in fatto, da effettuare caso per caso (con giudizio prognostico proiettato verso il futuro e non esclusivamente al momento dell’atto).

Nella specie, la corte di appello ha ritenuto che la probabile futura estinzione, almeno parziale, del mutuo ipotecario oggetto di accollo – al di là del valore effettivo dell’immobile rispetto all’importo di quest’ultimo – e la conservazione del diritto di abitazione in capo al L. fossero circostanze idonee ad indurre a ritenere che la realizzazione dei crediti della curatela, se i diritti ceduti fossero rimasti nel patrimonio del L., non sarebbe stata certamente impossibile e che essa in definitiva era stata resa più difficoltosa dall’atto di cessione. Dunque l’accertamento in fatto della sussistenza in concreto dell’eventus damni, con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, risulta correttamente effettuato dai giudici di merito, sulla base dell’esame del materiale probatorio, e tale accertamento è sostenuto da motivazione non apparente né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede.

4.Con il terzo motivo si denunzia “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere il giudice di secondo grado affermato che l’asserito credito del fallimento sarebbe stato anteriore rispetto all’atto di cessione dei diritti, senza esporre alcuna motivazione a sostegno del proprio assunto”.

Con il quarto motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a quanto previsto dagli artt. 2901 c.c., L. Fall., art. 146 e art. 2908 c.c., per avere la Corte di appello affermato che il preteso credito del fallimento sarebbe sorto anteriormente all’atto di cessione dei diritti”.

Con il quinto motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a quanto previsto dagli artt. 2908, 2901 c.c. e art. L. Fall., art. 146 per avere la Corte di appello affermato che l’elemento psicologico della azione revocatoria era integrato dalla “scientia damni””. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo riguardano la questione della anteriorità o meno del credito rispetto all’atto di cessione oggetto di impugnazione e la conseguente individuazione dell’elemento soggettivo in concreto necessario ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria (cd. scientia damni), in termini di mera consapevolezza in capo al debitore ed al terzo di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore ovvero di necessità di una dolosa preordinazione dell’atto al fine di pregiudicare tali ragioni (cd. animus nocendi; participatio fraudis), ai sensi dell’art. 2901 c.c., comma 1, n. 1.

Si tratta di motivi connessi, che possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

4.1 Il credito vantato dalla curatela attrice nei confronti del L. è costituito dalla pretesa risarcitoria derivante dalla dedotta responsabilità di quest’ultimo, quale socio e amministratore della società fallita, pretesa esercitata in giudizio dal curatore fallimentare ai sensi della L. Fall., art. 146.

Secondo i ricorrenti si tratterebbe di un’azione costituiva, con la conseguenza che l’eventuale credito potrebbe dirsi sorto solo a seguito dell’accoglimento della domanda della curatela, mentre l’atto di cessione in contestazione era addirittura anteriore all’instaurazione del relativo giudizio.

Tale assunto non è fondato in diritto.

L’azione proposta dal curatore ai sensi della L. Fall., art. 146 costituisce un’ordinaria azione risarcitoria di condanna, che cumula in sè le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma – quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali – implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni (cfr. in proposito, ad es.: Cass., Sez. 1, Sentenza n. 23452 del 20/09/2019, Rv. 655305 02; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 19340 del 29/09/2016, Rv. 641306 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 24715 del 04/12/2015, Rv. 638140 – 01). Le predette azioni sono del resto di per sè entrambe ben esperibili anche prima e a prescindere dal fallimento, che comunque risulta nella specie dichiarato anteriormente all’atto di cessione oggetto di revoca.

Non trattandosi di un’azione costitutiva, ma di una ordinaria azione di condanna, è applicabile il principio generale costantemente affermato da questa Corte, secondo cui “per l’esercizio dell’azione revocatoria è sufficiente una ragione di credito eventuale, mentre il requisito dell’anteriorità del credito rispetto all’atto impugnato in revocatoria deve essere riscontrato in base al momento in cui il credito stesso insorga e non a quello del suo accertamento giudiziale” (cfr., ex multis: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 22161 del 05/09/2019, Rv. 654936 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1968 del 27/01/2009, Rv. 606331 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 12678 del 17/10/2001, Rv. 549698 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 8013 del 02/09/1996, Rv. 499434 – 01).

In particolare, nel caso di credito litigioso – comunque idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria – per stabilire se esso sia o meno sorto anteriormente all’atto di disposizione del patrimonio è necessario fare riferimento alla data del contratto, se di fonte contrattuale, o alla data dell’illecito se si tratta di credito risarcitorio da fatto illecito, come correttamente statuito nella sentenza di primo grado, sul punto confermata dalla corte di appello.

4.2 In fatto, la corte territoriale ha poi espressamente affermato che il credito della curatela era anteriore all’atto di cessione oggetto di revoca e dalla decisione impugnata, nonchè dagli stessi atti di parte, emerge chiaramente l’anteriorità dell’illecito oggetto della pretesa risarcitoria del fallimento rispetto all’atto di cessione, in quanto derivante da condotte poste in essere dal L. nella qualità di amministratore della (OMISSIS) S.r.l. certamente prima dell’atto in questione (che risulta addirittura successivo alla dichiarazione di fallimento).

Parte ricorrente non indica in modo adeguatamente specifico, nel ricorso, se, ed eventualmente in quali atti e in quali termini, la circostanza di fatto dell’anteriorità dell’illecito posto a base della pretesa della curatela rispetto all’atto da revocare fosse stato oggetto di specifiche contestazioni nel corso del giudizio di primo grado, quale sia stato il contenuto della decisione di primo grado in proposito ed in che termini sia stata riproposta la questione nel giudizio di appello.

Sembrerebbe emergere dall’esposizione contenuta nel ricorso che il tribunale abbia espressamente disatteso la tesi in diritto dei convenuti secondo la quale il credito del fallimento poteva ritenersi sorto solo a seguito della sentenza di condanna (cfr., in particolare: pag. 6 ricorso).

Non è però adeguatamente chiarito se tale questione di diritto – peraltro manifestamente infondata, come già visto – era stata specificamente riproposta in appello: dal ricorso si apprende esclusivamente che gli appellanti avevano insistito a sostenere che il credito della curatela era posteriore alla cessione ma non se ed in che termini fosse stata eventualmente censurata la contraria affermazione del tribunale; in particolare, non risulta adeguatamente e specificamente richiamato (come sarebbe stato necessario ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) il contenuto della comparsa di costituzione di appello in cui sarebbero state effettuate le relative deduzioni, il che impedisce in radice di valutare nel merito la questione dell’esistenza ed adeguatezza della motivazione della decisione impugnata in ordine all’elemento soggettivo dell’azione revocatoria.

Sfugge in definitiva alle censure contenute nei motivi di ricorso in esame la sentenza della corte di appello, nella parte in cui, sul presupposto di fatto che il credito vantato dalla curatela fosse anteriore all’atto dispositivo, ha conseguentemente ritenuto, del tutto correttamente in diritto, che, ai fini dell’esperibilità dell’azione di cui all’art. 2901 c.c., fosse sufficiente la consapevolezza in capo al debitore ed al terzo di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore (cd. scientia damni).

5.Con il sesto motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a quanto previsto dall’art. 2727 c.c. e art. 2729 c.c., comma 1, per avere la Corte di merito presunto dal rapporto di coniugio tra L.P. e la Dott.ssa D.S.F. e dalla ritenuta (ma inesistente) convivenza tra di essi la sussistenza della “scientia damni””.

Anche questo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

La decisione della corte di appello, in diritto, è certamente conforme al principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (e che va in questa sede ribadito), secondo cui, “in tema di azione revocatoria ordinaria, quando l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, unica condizione per il suo esercizio è la conoscenza che il debitore abbia del pregiudizio delle ragioni creditorie, nonchè, per gli atti a titolo oneroso, l’esistenza di analoga consapevolezza in capo al terzo, la cui posizione, sotto il profilo soggettivo, va accomunata a quella del debitore; la relativa prova può essere fornita tramite presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato” (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16221 del 18/06/2019, Rv. 654318 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 5618 del 22/03/2016, Rv. 639362 – 01 Sez. 3, Sentenza n. 27546 del 30/12/2014, Rv. 633992 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 17327 del 17/08/2011, Rv. 619033 – 01), con la ulteriore precisazione che la predetta prova può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 1286 del 18/01/2019, Rv. 652471 01; Sez. 3, Sentenza n. 13447 del 29/05/2013, Rv. 626640 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5359 del 05/03/2009, Rv. 607194 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2748 del 11/02/2005, Rv. 579523 – 01).

I ricorrenti non sembrano neanche direttamente contestare i suddetti principi di diritto (peraltro consolidati e ai quali va certamente dato seguito), mettendo in realtà in discussione solo la congruità degli elementi utilizzati dalla corte territoriale nello svolgimento della sua argomentazione presuntiva.

Ma sotto questo profilo, nonostante la rubrica del motivo di ricorso in esame faccia riferimento ad una censura di violazione di norme di diritto, l’impugnazione si risolve in definitiva nella contestazione di un accertamento di fatto, sostenuto da motivazione non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico e, come tale, non censurabile in sede di legittimità, nonchè nella inammissibile richiesta di una nuova e diversa valutazione delle prove.

6.Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna i ricorrenti a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della curatela controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 7.200,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2020.

 

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