Breve excursus sul diritto all’oblio in rete

Avv. Francesca De Carlo


Nel nostro ordinamento, il diritto all’oblìo non è regolato dal diritto positivo. Un primo, debole, tentativo di riconoscimento1, si è avuto nella “Dichiarazione dei diritti di internet”, voluta da Stefano Rodotà, primo Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, ed elaborata da una Commissione di studio istituita nel 2014 dall’allora Presidente della Camera, Laura Boldrini.

Purtroppo, lo sforzo messo in atto, per quanto lodevole, non ha prodotto alcun risultato, rimanendo lettera morta. A livello europeo, la direttiva 95/46/CE2, relativa alla tutela delle persone fisiche riferita al trattamento dei dati personali e alla loro libera circolazione, definisce il diritto all’oblìo come “quel diritto volto alla cancellazione, al blocco, al congelamento dei dati o all’opposizione al trattamento degli stessi”.

Una definizione vera e propria del diritto in oggetto, la troviamo nel Regolamento generale sulla protezione dei dati UE 2016/679, all’articolo 17, rubricato “Diritto alla cancellazione” (diritto all’oblìo): 1. “L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali”, quando i dati personali non sono più necessari, quando il soggetto interessato ha revocato il consenso accordato in precedenza, quando i dati personali sono stati trattati in maniera illecita oppure quando l’interessato si è opposto al trattamento dei dati personali.

E’ anche previsto che si debba procedere alla cancellazione dei dati quando vi è la necessità di procedere all’adempimento “di un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento”.

A ben guardare, sarebbe opportuno parlare di un diritto ad “essere cancellati” o, a voler usare un corretto termine informatico, “deindicizzati”.

Per comprendere il termine, partiamo dal suo contrario: “indicizzare”, che significa reperire e raggiungere pagine o siti internet presenti nelle banche dati dei motori di ricerca on line.

Basta, infatti, inserire alcune parole chiave nell’apposito canale di ricerca affinchè tra i risultati compaiano i collegamenti a siti internet e tutti i contenuti multimediali.

Di conseguenza, l’attività che consente la rimozione di tali collegamenti ai siti internet, è denominata “deindicizzazione”.

Già nel 2014, in occasione del cosiddetto caso Google Spain, il diritto all’oblìo si è affermato come diritto alla deindicizzazione, da interpretare come la possibilità di ottenere la rimozione “dall’elenco dei risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona”.

Nel caso di specie, la Corte di Giustizia, si pronunciava, in seguito al ricorso di un cittadino spagnolo che aveva avanzato richiesta di rimozione sia al gestore del sito che aveva riportato la notizia, sia a Google, di alcuni dati personali pubblicati sul giornale e da lui ritenuti non aggiornati.

In particolare, a distanza di sedici anni, digitando il nome del ricorrente su Google Search, si veniva rimandati alle pagine web del quotidiano in cui comparivano annunci datati di una procedura di riscossione coattiva di crediti previdenziali.

L’Agenzia Spagnola di protezione dei dati (AEPD), aveva ordinato a Google di procedere alla rimozione dei dati in quanto non più attuali ma lo stesso si era rifiutato in quanto, a suo parere, questa richiesta andava a ledere la libertà di espressione dei gestori dei siti.

Il reclamo presentato dall’Agenzia di protezione, veniva parzialmente accolto nella parte in cui era diretto contro Google Spain e Google Inc. di eliminare definitivamente i dati personali in modo da non farli più comparire tra i risultati di ricerca web.

A seguito di questa sentenza e di altre simili intervenute nel corso degli anni, il Comitato europeo per la protezione dei dati (European Data Protection Board, di seguito EUBP), ha adottato le linee guida in materia di diritto all’oblìo, nei casi riguardanti i motori di ricerca, la cui seconda versione è stata pubblicata il 7 luglio scorso.

Il documento è articolato in due parti fondamentali che, in buona sostanza riprendono, rispettivamente, il comma 1 ed il comma 3 dell’articolo 17 del Regolamento generale 2016/679, su citato.

In particolare, la prima è dedicata ai motivi per i quali un qualsiasi soggetto interessato può chiedere la deindicizzazione, mentre la seconda parte è dedicata alle eccezioni che riguardano il diritto di deindicizzazione stesso.

Con riferimento alla prima parte, la prima causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di oblio ex art. 17. l. a), è rappresentato dal caso in cui i dati non siano più necessari in relazione alla finalità del trattamento.

Ciò perchè le informazioni inserite in un sito web possono, se non aggiornate, risultare inaccurate e fuorvianti oltre che lesive dell’immagine e della reputazione del soggetto interessato.

Per quanto riguarda il nostro ordinamento, va sottolineato che il diritto all’oblìo è stato oggetto di numerose3 decisioni in sede giurisdizionale.

La Cassazione, nella sentenza n. 5525/20124, lo ha qualificato come il diritto “alla contestualizzazione delle informazioni”.

Più nel particolare, ha statuito che il diritto ad essere dimenticati “salvaguarda in realtà la protezione sociale dell’identità personale, l’esigenza del soggetto di essere tutelato dalla divulgazione delle informazioni (potenzialmente) lesive”.

La questione si è, ovviamente, complicata con la digitalizzazione degli archivi storici o la creazione di banche dati per finalità di ricerca e di studio. E, proprio in linea con questa problematica, si inserisce l’ordinanza 27 marzo 2020, n. 7559, con la quale la Cassazione ha stabilito che il diritto all’oblìo, poiché strettamente connesso all’identità personale, deve essere accordato riconoscendo la centralità dell’individuo e dei diritti della personalità ad esso riconosciuti, anche alla luce dell’evoluzione economica e sociale.

Il diritto alla protezione dei dati personali deve essere inteso come diritto al potere dell’interessato di controllare i propri dati consapevolmente, nel rispetto del principio di autodeterminazione informativa, diritto che trova il suo fondamento nell’articolo 2 della Costituzione e che si differenzia dal diritto alla riservatezza il quale, invece, si collega alla tutela dell’intimità della propria vita contro qualsivoglia ingerenza esterna.

La vicenda oggetto dell’esame della Suprema Corte, trae origine dalla riproduzione, all’interno dell’archivio storico on-line di una testata giornalistica nazionale, di due articoli, originariamente pubblicati sull’edizione cartacea del giornale i quali riportano fatti risalenti aventi come protagonista l’amministratore unico di un’agenzia di rappresentanza di dispositivi medicali che aveva patteggiato la pena relativa ad una condanna per frode in pubbliche forniture, sostituzione di persona e falso in atto pubblico commesso da un privato.

Uno degli eredi del soggetto protagonista della vicenda giudiziaria, ritenendo gli articoli pregiudizievoli sia della reputazione del de cuius che della propria famiglia, interessava il Garante della protezione dei dati personali, chiedendo la rimozione degli articoli dal sito web del quotidiano ovvero, in subordine, l’aggiornamento degli stessi attraverso l’integrazione dei successivi sviluppi processuali, nonché la misura di tutti gli strumenti idonei ad evitare l’indicizzazione degli articoli attraverso i motori di ricerca.

Il ricorso veniva rigettato in sede amministrativa. Adito il Tribunale competente, lo stesso, in buona sostanza, confermava quanto statuito dal Garante, ordinando la cancellazione della notizia giornalistica, ritenendo illegittimo il fatto che i dati personali del de cuius fossero rimasti memorizzati nel web, nonostante la finalità di cronaca giornalistica si fosse esaurita con la sentenza di patteggiamento.

La Cassazione ribalta la decisione, negando il diritto alla rimozione integrale degli articoli:non parrebbe corretto individuare il sorgere del diritto all’oblio quale conseguenza automatica del trapasso del soggetto interessato; analogamente, il venir meno dell’interesse collettivo alla conoscenza di determinati dati personali non coincide, in via automatica, con il passaggio a miglior vita del titolare. Allo stesso modo, il mero trascorrere del tempo non comporta, ex se, il venir meno dell’interesse alla conoscenza del dato di cronaca, criterio che, se opzionato, comporterebbe la non pertinenza di scopo di ogni archivio di stampa, cartaceo o informatico che sia”.

Da qui la necessità di una valutazione specifica da operare di volta in volta, in particolare tenendo conto dello sviluppo tecnologico, delle tecniche di veicolazione e circolazione dell’informazione, dell’interesse alla riservatezza dell’individuo.

Scarica l’Ordinanza


1 La portata innovativa del testo elaborato, è racchiusa nell’articolo 11 dello stesso, nel quale si dispone che:”1. Ogni persona ha diritto di ottenere la cancellazione dagli indici dei motori di ricerca dei riferimenti ad informazioni che, per il loro contenuto per il tempo trascorso dal momento della loro raccolta, non abbiano più rilevanza pubblica. 2. Il diritto all’oblìo non può limitare la libertà di ricerca e il diritto dell’opinione pubblica a essere informata, che costituiscono condizioni necessarie per il funzionamento di una società democratica. (…).Se la richiesta di cancellazione dagli indici dei motori di ricerca dei dati è stata accolta, chiunque può impugnare la decisione davanti all’autorità giudiziaria per garantire l’interesse pubblico all’informazione”.

2 Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 1995.

3Già nella sentenza n. 3679/1998, il diritto all’oblìo aveva ricevuto esplicito riconoscimento: “ è da intendersi quale giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia che in passato era stata legittimamente pubblicata”. Tutto questo a patto che, secondo la Suprema Corte, non ci fossero fatti “sopravvenuti”in grado di rendere nuovamente attuale la notizia.

4Cass. Civile, Sez., III, 5 aprile 2012, n.5525.

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